Addio bei sogni di lunghe vacanze

Addio bei sogni di lunghe vacanze INCHIESTA: TEMPO LIBERO Addio bei sogni di lunghe vacanze Jacques-Francois Simon Le Mondo Quando, nell'autunno del 1972, l'Organizzazione per la coopcrazione e lo sviluppo economico (Ocsc) riunì una conferenza internazionale sulla sistemazione del tempo di lavoro, la prima relazione che l'Organizzazione mise in discussione era quella di un economista. Il tema: « Tracciare una previsione dello sviluppo durante gli Anni Settanta ». Gli si può rimproverare il suo ottimismo? Tutto, in quel momento, sembrava giustificare le sue previsioni sul futuro dei Paesi occidentali: aumento costante della produzione, della produttività, dei consumi; diminuzione correlativa della durala del lavoro e del numero di disoccupati. In quel momento era uno schema classico. Poi e venuta la crisi a sconvolgere queste belle prospettive. Essa non rischia forse di rendere un po' superflue le discussioni sul modo migliore di distribuire i tempi del lavoro e della ricreazione? I problemi che oggi si pongono gli europei sono molto elementari: troveremo lavoro o potremo conservare quello clic abbiamo? L'inllazione ci lascerà abbastanza denaro per soddisfare le nostre necessità, ci permetterà di andare in vacanza? Chiedere loro d'interessarsi all'organizzazione dei loro orari di lavoro, allo scaglionamento dei weekend o delle ferie non è tuttavia invitarli a preferire l'accessorio all'essenziale, o il dolce quando rischia di mancare il pane? La scelta non è così drastica. La crisi, in un certo senso, esige che non si trascuri nulla di ciò che permetterebbe di attenuarne o di « governarne » le conseguenze. Bisogna lottare contro ogni forma di spreco. Quella più evidente per i cittadini dell'Occidente è costituita dalle « punte » del traffico ogni giorno, ogni settimana, o stagionalmente. In tutte le grandi città del mondo le autostrade, le metropolitane, le ferrovie sono costruite ed equipaggiate per accogliere i milioni di lavoratori che ne fanno uso all'inizio e alla fine della giornata, 0 della settimana, all'inizio e alla fine dell'estate. A lungo termine (e perché non cominciare subito) non sarebbe più economico scaglionare meglio gli orari di lavoro o le date di partenza per la vacanze, tentare di adattare il contenuto al contenente dopo avere per tanto tempo fatto il contrario? La disoccupazione, con tulle le sue conseguenze dirette e indirette (riduzione degli orari, pensioni anticipate, ecc.), minaccia tulle le economie occidentali. Non sarebbe più giusto attenuarne le conseguenze facilitando il lavoro a tempo parziale, non soltanto a metà-tempo, ma a due terzi, a un quarto del tempo totale? La crisi, generalmente, rende più dure le reazioni e incoraggia i fenomeni di « rigetto » che caratterizzano il « male » del nostro secolo. Perché farne pretesto per abbandonare quella preoccupazione della qualità che può rendere più agevole un mondo quotidiano volato a servire la quantità? Tutti questi clementi danno un senso di nuova attualità agli sforzi che da una quindicina d'anni vengono fatti nei Paesi occidentali per facilitare una migliore distribuzione del tempo di lavoro e del tempo libero. Si temano esperienze un po' ovunque, nella maggior parte dei casi senza alcun collegamento tra esse. Si organizzano incontri internazionali per confrontare queste diverse esperienze. Non a caso è in Francia — uno dei Paesi europei in cui abitudini e tradizioni sono più consolidate — che il lavoro di riflessione su tale insieme di esperienze è slato spinto più a fondo. « In un secolo — scrivono gli esperti Philippe Lamour e Jacques de Chalendar — l'uomo lui trasformato l'ordine delle cose, ma non quello della propria vita. Noi: ha sensibilmente modificato le sue abitudini d'ogni giorno, i suoi modi di vivere desueti, 1 suoi orari inadatti. L'uomo ha modificato completamente l'uso dello spazio, non ha modificato l'uso del tempo. Come nelle epoche in cui la carenza di mezzi costringeva alla loro utilizzazione comune, noi continuiamo a fare tutto, tutti insieme, e lutti nello stesso tempo... ». Lavoro-ricreazione, ricreazione-lavoro, questa alternanza costituisce il ritmo della vita del bambino e dell'adulto nei giorni, nelle settimane, negli anni. Come organizzare tale ritmo nel modo migliore per l'individuo e la società? Nella sua vita l'uomo comincia ad imparare, prima di produrre e di andare in pensione. Come « sistemare » il passaggio da un'età all'altra? Si è cominciato a tentare delle risposte a queste due serie di problemi. Si discute sulla durata giornaliera o settimanale del lavoro — intorno alla quale si mobilitano le rivendicazioni sindacali — che varia da Paese a Paese. D'altra parte si discute, indipendentemente dalla loro durala, sul modo di organizzare la giornata 0 la settimana di lavoro. Si tratta di due ordini di preoccupazioni ben distinti. II principio dell'innovazione sperimentata nella maggioranza dei Paesi europei con il nome di « orario variabile » o « mobile » è semplice. Nella giornata di lavoro classica tutti iniziano c smettono contemporaneamente. Per i promotori dell'orario variabile il tempo di lavoro della giornata è suddiviso in molti « turni ». Almeno tre: un turno fisso durante il quale tutti sono contemporaneamente presenti in officina o all'ufficio; due turni variabili che precedono quello « collettivo », o Io seguono, durante 1 quali ognuno può scegliere liberamente il momento d'inizio o di termine del lavoro, a condizione di fare il numero di ore previste. Si traila, insomma, di dare all'insieme dei salariati dell'azienda un margine comparabile a quello di cui, in pratica, dispongono i loro dirigenti. E' un'esperienza compiuta in numerose società europee, in particolare in Svizzera. sul 50-40 per cento degli impiegati e dei salariali, per un totale che va da 1 milione 300 mila a un milione 700 mila persone. In Francia, l'orario libero era applicato quattro anni fa in una quindicina di aziende, oggi dev'esserlo in almeno ottocento, per la maggior parte delle attività professionali, ma soprattutto per i servizi amministrativi e sociali. La stessa constatazione vale per la Gran Bretagna, dove la formula introdotta quattro o cinque anni fa è slata adottata da circa cinquecento aziende, specie nel settore delle assicurazioni. In Germania Federale si calcola che una società su tre e sei amministrazioni su dieci adottino l'orario flessibile. Infine, da febbraio, venticinquemila operai italiani della Fiat possono modulare le loro ore di inizio e di chiusura del lavoro. E' l'esperienza più importante tentata su una sola azienda. L'orario variabile, che sembra essere un'esperienza tipicamente europea (gli Stali Uniti l'ignorano o quasi) ha i suoi avversari. Inapplicabile per il lavoro a catena dell'industria pesante, presuppone un controllo più accurato delle ore di presenza e di assenza, può portare a modifiche del regime delle ore supplementari, ostacolate le riunioni di informazione sindacale ecc. Ma è un fatto che pochissime aziende vi hanno rinunciato dopo averlo sperimentato. Spesso è una necessità. La direzione della Messerschmidt aveva notato che ogni mattino erano necessari venti minuti per permettere a tutti i lavoratori dell'azienda di parcheggiare le loro macchine. S'imponeva uno scaglionamento delle ore d'ingresso. A Parigi gli ascensori del nuovo grattacielo Mainc-Montparnassc non potevano metterci meno di quarantacinque minuti per smaltire le settemila persone che si recano a lavorare nei cinquantasei piani dell'immobile. Anche in questo caso fu necessario Io scaglionamento degli orari d'entrata e d'uscita. Per i capi dell'azienda l'orario libero è un mezzo per risistemarc e ordinare le abitudini del personale. Per quest'ultimo può essere un mezzo per cominciare a « cambiar vita ». Le indagini più recenti dimostrano che il senso di libertà dato dall'orario libero è ancor più apprezzato della soppressione di questa o quella costrizione. L'importante non è tanto di evitare l'affollamento della metropolitana, quanto di eliminare l'affanno del ritardo, di dare la possibilità ai lavoratori — soprattutto alle donne — di disporre liberamente non foss'altro che di una parte del loro tempo di lavoro, per soddisfare meglio le esigenze della loro vita familiare o personale. Dall'orario variabile si passa naturalmente alla settimana variabile. Nulla, in teoria, impedisce d'immaginare che il lavoratore che ha acquisito ogni giorno, nei turni mobili, un certo credito di ore, ne benefici durante la settimana: alla fine egli uscirà più presto il venerdì sera, o rientrerà più tardi il lunedì mattina. In tutti i Paesi europei in cui e diffusa la settimana di cinque giorni (la formula della settimana di quattro giorni è praticamente abbandonata) la domenica è «sacra». Si deve fare del sabato un secondo giorno «sacro»? Oggi sembra delincarsi un movimento inverso rispetto a quello constatato in questi ultimi anni. Anche in Gran Bretagna, dove fu inventato il weekend, e soprattutto in Belgio dove esso è largamento applicato, si comincia a temere le conseguenze d'una applicazione troppo rigida dei fine settimana. Non possono tutti riposarsi allo stesso tempo senza correre il rischio di nuocere agli altri. Affinché tale riposo conservi un significato e un interesse, bisogna che il sabato possa essere dedicalo, almeno in parte, agli acquisti, alle visite di esposizioni, alle attività sportive, il che suppone che il riposo non può essere fruito da tutti indistintamente. Di passo in passo si arriva ad una formula in cui l'azienda resta aperta sei giorni, mentre il lavoratore può scegliere liberamente di assentarsi il sabato o il lunedì e, talvolta, il sabato e il lunedì seguente. In Germania e in Francia si stanno facendo esperimenti in questo senso. Non si potrebbe andare più lontano e immaginare una specie di « banca del tempo » tenuta dall'azienda che permetterebbe ai suoi lavoratori di riportare da una settimana alla seguente o da un mese all'altro le « ore di riposo » che essi avrebbero accumulato, non facendole, durante i turni fìssi della giornata, della settimana o del mese, e che essi utilizzerebbero in due o tre giorni consecutivi di vacanza? La logica permette di ipotizzarlo, anche se in pratica non esistono esempi. Ma in molti casi si hanno reazioni che dimostrano come non si tratti di una ipotesi assurda. Quando i sindacati italiani chiedono che siano raggruppati i riposi cui danno diritto i diciassette giorni non lavorativi scaglionati durante l'anno, essi si mettono in questo tipo di ottica. Paradossalmente, lo scaglionamento delle vacanze sembra suscitare un interesse maggiore di quello dei weekend. Forse perché la parola è suscitatrice di sogni? O perché il progresso dei mezzi di trasporto e del turismo ha fatto delle vacanze una vera e propria industria che difende le proprie posizioni, cieando con la pubblicità nuovi bisogni? Le vacanze dei lavoratori britannici sono molto aumentate da quattro anni in qua, ma i francesi restano, tra tutti gli europei, quelli che hanno le più lunghe vacanze estive. E sono anche quelli che concentrano di più le partenze su alcuni giorni dell'anno: alla fine di luglio o all'inizio d'agosto. Come rompere questa serie di abitudini e di costrizioni che porta le grandi città francesi a svuotarsi per un mese, mentre i luoghi di villeggiatura diventano congestionati? Da dieci anni si susseguono le campagne contro il fenomeno, apparentemente senza grandi risultati. Oggi tutti gli esperti lo riconoscono: per scaglionare le vacanze bisogna scaglionare il lavoro. Non soltanto il lavoro scolastico (meno di un francese su due è legato, per la data delle sue vacanze, a quelle dei suoi bambini) ma soprattutto il lavoro degli adulti. Fino a che non si sarà ottenuta da qualche grande settore industriale una chiusura delle fabbriche, se non lungo tutto l'arco dell'anno, almeno su una gran parte della buona stagione, non si potrà obbligare i francesi a scaglionare le loro partenze, come fanno ad esempio, regione per regione, i tedeschi. Le vacanze su misura di cui si può sognare presuppongono in realtà un lavoro su misura che si comincia soltanto ora ad immaginare. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno si può tentare di ammorbidire le costrizioni che pesano sulla vita attiva degli individui e li obbligano a « subire » sia il lavoro che il tempo libero. Ma questa vita attiva non è altro che una lunga parentesi tra la scuola e la pensione. Si pone un problema più generale: è possibile distribuire meglio lungo tutto l'arco della vita il tempo dello studio, quello del lavoro e quello della pensione? L'ideale, richiamato in particolare dall'Ocse, sarebbe quello di permettere ad ognuno « di scegliere in ogni momento la soluzione più conveniente alle sue possibilità fisiologiche, alle sua attitudini intellettuali, alle sue responsabilità familiari, ai suoi desideri personali ». La riforma del calendario scolastico è un rompicapo per i responsabili europei dell'educazione nazionale. Tutti sono d'accordo che essa implica una riforma dei programmi e dello stesso insegnamento. Consideriamo soltanto la proposta più recente fatta per la Francia. Perché non decidere che l'anno scolastico comincia il primo gennaio? Lo si allineerebbe così all'anno amministrativo, si sopprimerebbe il temibile « effetto di oblìo » provocato nei ragazzi dal fatto di cambiare classe dopo un troppo lungo periodo di vacanze estive, si « demistificherebbero » gli esami, semplicemente modificandone la data. Altro problema: fino a quale età la scuola obbligatoria? Almeno fino a 16 anni, pensano tutti gli europei. Perché non fino a 18? E perché non istituire, a partire da 16 anni, un « credito-studi » di cui i giovani possano beneficiare in un secondo tempo? Non è forse necessario, a partire da una certa età, combinare gli studi con l'attività professionale? Da un punto di vista più generale quale posto si deve dare alla « formazione permanente »? 11 dibattito più recente e senza dubbio più attuale è quello sul pensionamento. Gli effetti della crisi vanno nello stesso senso delle rivendicazioni più diffuse nella maggior parte dei Paesi europei: bisogna abbassare da 65 anni a 60 l'età in cui si lascia normalmente la vita attiva. Di qui alcune evidenti difficoltà economiche: il governo inglese ha calcolato che il provvedimento costerebbe alla finanza pubblica 1400 milioni di sterline all'anno. Ma la discussione si allarga anche al modo in cui deve essere organizzato il passaggio dalla vita attiva alla pensione e alla conciliazione tra due tendenze contraddittorie: l'abbassamento dell'età del pensionamento dovrebbe permettere di conservare il mercato del lavoro per gli adulti; nello stesso tempo, un buon numero di pensionati desiderano continuare a lavorare. Jacques de Chalendar, a questo proposito, pone tre domande. Perché la data di pensionamento dev'essere la stessa per tutti? Perché non prevedere per i pensionati un periodo di transizione con lavoro a tempo parziale? Perché non autorizzare i cumuli, salvo prevedere una doppia liquidazione? Su un punto almeno egli traccia una « linea di ricerca » molto generale, come ha dimostrato l'indagine nel corso della quale il 66 per cento dei tedeschi interrogati si sono dichiarati favorevoli a « un ammorbidimento personalizzato circa l'età del pensionamento ». Che considerino l'uomo nel lavoro, o nel tempo libero, o generalmente nella vita, tutti quelli che si pongono come obiettivo di « risistemare il tempo », come altri hanno tentato di sistemare il territorio, lavorano per gli stessi obiettivi: eliminare o almeno attenuare tutti i condizionamenti in cui il mondo moderno ci costringe: condizionamenti tra le età, tra il lavoro e la ricreazio- ne, tra gli uomini. La difficoltà proviene dal fatto che le fratture denunciate verbalmente da tutti, ognuno, in fin dei conti, ha interesse a mantenerle. In tutti i Paesi europei le organizzazioni padronali temono che, a voler modificare troppo le condizioni del lavoro, si disorganizzi la produzione. I sindacati dei lavoratori, generalmente, temono che una diversa sistemazione di orari, ferie ed età di pensionamento non sia che un alibi per ritardare il soddisfacimento delle rivendicazioni più immediale e urgenti. Se ogni lavoratore aspira ad una maggiore indipendenza nella scelta dei suoi compiti o del suo tempo libero, non per questo vuol perdere la sicurezza che gli dà la regolamentazione contrattuale in cui vive. Ed è anche vero che ogni individuo è restìo a lasciare le sue abitudini o le sue tradizioni. Questa catena di reazioni, senza dubbio, spiega meglio delle motivazioni particolari avanzale da varie parti la lentezza delle riforme iniziate per risistemare i tempi dell'esistenza individuale e, in definitiva, per migliorare la qualità della vita. I Hanno collaboralo Renzo Villure. La Stampa, Malcolm lìrown. The Times. Hans Stollhans, Die Welt).

Persone citate: Francois Simon, Hans Stollhans, Jacques De Chalendar, Philippe Lamour, Renzo Villure