Gli Arabi in Borsa

Gli Arabi in Borsa PANORAMA ECONOMICO DEI "4„ Gli Arabi in Borsa Lo Scià dell'Iran entra nella Krupp; gli emiri del Golfo Persico comprano azioni della « Pan Am ». castelli, grattacieli. Ogni volta che nella Borse europee c'è la corsa all'acquisto di qualche titolo, il commento degli ambienti finanziari è sempre: « Di sicuro dietro c'è qualche sceicco ». Gli esperti di Le Monde. La Stampa, The Times. Die Welt. janno il punto sulla situazione dei petroldollari in questo « Panorama economico dei Quattro ». Parigi Alain Vernholes Le Monde Fino ad oggi l'economia francese ha resistito bene all'invasione di capitali « da petrolio ». Forse però questo è dovuto al fatto che non c'è stato un attacco finanziario arabo di proporzioni incontrollabili. Di recente, l'unica operazione di un certo peso della quale si sappia qualcosa riguarda l'acquisto da parte del Kuwait del grattacielo Manhattan, in costruzione alla periferia di Parigi, che sarebbe costato 403 milioni di franchi. La cifra comunque non è mai stata confermata ufficialmente. Tuttavia gli operatori della Borsa parigina si dicono convinti che la ripresa delle quotazioni registrata a partire dal 23 dicembre, e che nello spazio di un mese ha consentito un rialzo dei titoli che si aggira sul 19 per cento, ha una sola causa: gli acquisti di azioni francesi da parte dei Paesi produttori di petrolio. Ma anche in questo caso manca una prova certa a sostegno di questa ipotesi. Le contrattazioni di compravendita sono infatti anonime, e gli agenti non sanno se operano per conto degli emirali del Golfo Persico, dato che gli ordini provengono dai Paesi più disparati: Svizzera. Inghilterra. Olanda, Germania Federale. Malgrado l'assenza di dati statistici, si può affermare che, almeno fino a una data recente, i petroldollari affluiti in Francia si sono riversati su impieghi mobili (prestiti bancari e acquisti di obbligazioni) piuttosto che su operazioni di acquisizione di controllo o su impegni a lungo termine. Lo scorso anno la Francia aveva ottenuto un prestito di 13 miliardi di franchi sul mercato degli eurodollari. E' praticamente impossibile stabilire l'origine di questi eurodollari o identificare i loro possessori. Annunciando, lo scorso anno, che quattro miliardi di franchi erano stati prestali dal Credito nazionale alle ditte francesi che si dedicano all'esportazione, il ministro delle Finanze, Fourcade, aveva precisato che la metà della somma sarebbe stata fornita da un consorzio bancario alimentato da un produttore di petrolio del Golfo Persico. Come classificare i prestiti e i depositi forniti alla Francia dai produttori di petrolio? L'Iran, ad esempio, ha accettato di depositare un miliardo di dollari in Francia sotto forma di pagamento anticipato delle commesse ordinate dallo Scià a numerose industrie: 300 milioni di dollari sono già giunti, altri 400 arriveranno nel corso dell'anno, i restanti 300 milioni nel 1976. Il Qatar si è già impegnato per un deposito di 200 milioni di dollari. Per ciò che riguarda gli investimenti diretti, l'Eurodif rappresenta un caso a parte trattandosi di un accordo fra governi per l'arricchimento di uranio. Da un lato l'Iran ha bisogno di uranio per approvvigionare le centrali nucleari in costruzione, su licenza francese; dall'altro il consorzio, di cui la Francia era il principale azionista (52,8 per cento del capitale) aveva bisogno di finanziamenti per costruire l'impianto di Tricastinc. vicino a Pierrelattc. Parigi non era in grado di finanziare il progetto anche facendo ricorso ai partner dell'Eurodif, e cioè Belgio, Italia e Spagna. Teheran ha accettato di fornire una parie dei fondi sotto forma di prestilo, ma la sua partecipazione all'Eurodif resta indiretta: sarà un associato della Francia in una società a maggioranza francese. A parte questo caso non si conoscono i termini di altri investimenti diretti. Finora nessuna operazione è stata segnalata in Francia analoga a quella, come la partecipazione iraniana al 25 per cento che ha portato l'Iran a controllare il 25 per cento della Krupp e il Kuwait il 14 per cento della Daimler-Benz. In ogni caso le autorità francesi non l'avrebbero autorizzata. In più occasioni Fourcade ha ribadito che il governo non intende procedere al riscatto di operazioni in corso in cui siano coinvolti capitali arabi. Lo Stato vedrebbe invece di buon occhio la diffusione di partecipazioni minoritarie (nell'ordine del 10-15 per cento). Roma Renzo Villare La Stampa In Italia, di petrodollari si comincia solo ora a sentir parlare. In alcuni ambienti industriali si sostiene infatti che gli investimenti arabi cominciano a fare capolino anche da noi. .11 primo ad ammetterlo è stato l'armatore Glauco Lolli Ghetti, presidente della Armaliberi, il quale ha confermato l'esistenza di trattative con un gruppo finanziario iraniano per la cessione di una consistente quota del pacchetto azionario della società di navigazione Nai (Navigazione Alta Italia) di cui è presidente e amministratore delegato. Si tratta comunque, almeno per ora, di un fatto sporadico ed è quindi difficile poter parlare, a differenza di altri Paesi, di investimenti in Italia ad ampio respiro da parte delle nazioni arabe produttrici di petrolio. Perche questa discriminazione? Gli strumenti promozionali a disposizione del nostro Paese per una positiva politica commerciale con le nazioni arabe sono insufficienti. Occorrono nuove e più efficaci strutture che aumentino la forza di penetrazione in quei Paesi e, a questo scopo, è sorta in Italia la Camera di commercio italo-araba. Abbiamo sentito il segretario generale dell'ente Ibrahim Feituri. il quale non ha nascosto che « il cammino da percorrere per lo sviluppo e il miglioramento dei rapporti italo-arabi sarà lungo e difficile », ma ha affermalo che si potrà arrivare a rapporti molto interessanti. L'Italia esporta attualmente nei Paesi arabi solo il 7-8 per cento di tutte le loro importazioni. Di questo 7-8 per cento il 4 è destinato alla sola Libia. Per motivi tradizionali, storici, economici, geografici e politici l'Italia dovrebbe avere un posto molto più significativo a fianco dei Paesi arabi. Anche se le nostre esportazioni, sempre in quei Paesi, sono cresciute nel 1974 mediamente del 50-60 per cento in valore, sono ancora insufficienti a colmare il disavanzo petrolifero italiano che. nel 1974. ha superato i 5 mila miliardi di lire. Gli investiménti industriali in petrodollari potrebbero, quindi, rivelarsi molto utili. Per ora il caso è ipotetico. La stessa Camera di commercio italo-araba non è a conoscenza di nessun progetto concreto a parte l'operazione con la Nai. Qualche Paese produttore di petrolio sembra interessato a costruire complessi alberghieri e turistici in Calabria e in Sicilia, mentre altri (specie l'Iran) intenderebbero acquistare una parte della Costa Smeralda in Sardegna. Tutto è però basato sui « si dice ». La stessa incertezza si ripresenta per le « voci » circolate circa l'acquisto, da parte della Libia, di una vasta area sull'isola di Pantelleria per l'allestimento di un villaggio turistico e una partecipazione iraniana nella Builoni-Pcrugina, operazione che, comunque, si sarebbe svolta negli Stali Uniti poiché ora il capitale della società è americano. Questa è la situazione dei petrodollari in Italia. Come si vede ben poco, rispetto agli Stati Uniti o anche agli altri Paesi europei. La ragione della « disaffezione » dei padroni del petrolio verso l'Italia, va forse cercata nel terreno politico. Come si ricorda, negli Anni 60, l'Italia rimase praticamente esclusa dalla valanga di dollari americani che si riversarono sull'Europa: tutti i Paesi della Cec si rivelarono interessanti per le multinazionali statunitensi, eccettuata l'Italia. Questo perché gli investimenti d'oltreoceano vedevano con una certa apprensione il continuo crescere in voti e in importanza del partito comunista e temevano che prima o poi sarebbe entrato nell'area governativa. Probabilmente questa stessa ragione costituisce una delle remore (certo non l'unica) per i Paesi produttori di petrolio ad investire i loro capitali in Italia. Bonn Claus Dertinger Die Welt La Germania federale sta diventando l'obiettivo preferito degli investimenti dei Paesi del Medio Oriente, e ciò per svariati motivi: la stabilità economica, la solidità della sua moneta e la presenza di uno dei più contenuti tassi di inflazione tra le nazioni industrializzate dell'Europa occidentale. Lo straniero che desidera investire non trova alcun ostacolo grazie alla liberalità della legislazione valutaria. Nessuno teme che un giorno possa essere reso difficoltoso il ritiro del capitale impiegato; la richiesta di nazionalizzazione delle industrie chiave e delle banche, caldeggiata dall'ala sinistra del partito socialdemocratico attualmente al potere, non viene considerata un pericolo effettivo. Non ci si deve quindi meravigliare se la Germania si presenti attualmente come il luogo quasi ideale per gli investimenti di provenienza internazionale, e gli sceicchi naturalmente ne approfittano. Non si sa tuttavia dove e quanti capitali essi abbiano già investito. L'opinione pubblica è a conoscenza solo di due iniziative spettacolari: la partecipazione al 25 per cen- to dell'Iran nella Krupp-Hutterwcrkcn di Bochum, avvenne nel maggio '74, e la scalala del Kuwait alla Daimler Benz nel dicembre dello scorso anno. Per la sua partecipazione alla Krupp lo scià sembra abbia sborsato 200 milioni di marchi, mentre un miliardo di marchi è la somma pagata dal governo del Kuwait alla vedova Ingc Quandt e al cognato Herbert per acquistare il 14 per cento del capitale sociale (pari a circa un miliardo c duecento milioni di marchi) della costruttrice della Mercedes. Queste "sono le uniche transazioni veramente importanti, anche le più consistenti compartecipazioni degli Stati petroliferi nella repubblica federale. Infatti il governo di Bonn e in procinto di emanare provvedimenti per impedire che i nco ricchi signori del petrolio possano acquisire il controllo di aziende, che per ragioni politiche e di sicurezza debbono rimanere in mano tedesca. I tentativi per arginare « l'inforestieramento » economico della Germania sono divenuti più evidenti, dopo il rilevamento da parte della Banca federale, per due miliardi di marchi, della quota Flick in seno alla Daimler (pari al 29 per cento), con lo scopo dichiarato di voler impedire un allontanamento del pacchetto azionario dai confini del Paese. La voce che lo scià di Persia avrebbe tentato di impadronirsi della società solleva ancora dubbi. Ebcrhard von Brauchlisch, Amministratore del Gruppo Flick. nega che gli iraniani abbiano fatto un'offerta per acquistare il pacchetto, ma è ormai accertalo che agli esponenti finanziari dei Paesi produttori di petrolio interessa molto assicurarsi compartecipazioni nelle aziende tedesche, anche attraverso giochi in Borsa. Da ciò si può facilmente arguire che anche gli sceicchi hanno contribuito all'aumento di circa un quinto subito dalle quotazioni azionarie della Borsa tedesca nel periodo che va dall'inizio dello scorso ottobre fino alla metà di febbraio. Alla Borsa federale i re del petrolio accedono attraverso le banche svizzere e finanziarie britanniche. Il segreto bancario, con i suoi limiti di discrezione, non svela quali siano i movimenti e dove siano avvenuti, ma si sospetta che grossi pacchetti della Manncsmann. (si ritiene almeno il dieci per cento del capitale). della banca di Dresda e di altri gioielli del mercato azionario tedesco giacciano al sicuro nelle casseforti del Medioriente. I proventi del petrolio non vengono solo investiti in azioni, ma anche in obbligazioni. Sempre più spesso fanno la loro comparsa sulla scena i rappresentanti finanziari degli sceicchi del Kuwait, ad esempio quando aziende straniere o Stati od altri enti negoziano prestiti in marchi tedeschi. E cifre di una certa entità, che sfuggono al grosso pùbblico, vengono investite in marchi e collocate poi privatamente. Si ritiene che in questo modo sono già stati investiti più petrodollari in marchi di quanto non sia stato fatto attraverso l'acquisto di azioni tedesche, come nel caso degli spettacolari interventi alla Krupp e alla Daimler. Londra Hugh Stephenson The Times Quando la banca d'investimenti Slater Walker decise, alcuni mesi fa, di vendere il 20,7 per cento della sua partecipazione azionaria nell'impresa di costruzioni Richard Costain a Al Tajer, ambasciatore a Londra degli Emirati Arabi Uniti, molti giornali inglesi gridarono allo scandalo. Era la prima volta infatti che capitali arabi ottenevano il possesso, anche se parziale, di una società britannica. Fino allora gli arabi avevano limitato i loro investimenti in Inghilterra all'acquisto di beni immobiliari e a modesti giochi in Borsa. Oggi nessuno storce più il naso alla nolizia di grossi affari stipulati nel Paese dai businessmen arabi. La Lonrho, un'impresa specializzata nel commercio estero, ha ceduto, per sei milioni di sterline, otto milioni di azioni allo sceicco Nasser Al Ahmed, genero dell'emiro del Kuwait. Il passaggio ha assicurato allo sceicco, che si dice rappresenti gli interessi privati e statali di numerose nazioni arabe, il controllo del 14 per cento della società e una partecipazione azionaria nella fabbrica d'automobili Leyland. Al Ahmed, che ha 26 anni, dovrebbe entrare fra breve nel consiglio di amministrazione della Lonrho. La sua famiglia è il principale azionista della Gulf International, il gruppo arabo d'investimenti. Il più attivo sul mercato inglese si è rivelato l'ufficio d'investimenti del Kuwait. Lo scorso anno aveva comprato la St. Martins (immobiliari) per 91 milioni di sterline, mentre lo sceicco di Abu Dhabi aveva pagato 36 milioni di sterline per entrare nella direzione della Commercial Union (assicurazioni) e una cifra non precisala per una partecipazione di maggioranza nell'albergo londinese Park Hotel. Da poco è entrata in attività una società a capitale arabo, Evenrcalm, che si è subito dedicata a massicci acquisti di case e terreni nelle zone metropolitane di Manchester e di Londra. Benché spettacolari, forse perché di facile presa sul grosso pubblico, questi movimenti di capitali rappresentano tuttavia una goccia nel mare delle disponibilità finanziarie di cui godono attualmente i Paesi arabi produttori di petrolio. Le indicazioni ufficiali sull'ammontare delle somme investite dagli sceicchi in Inghilterra sono scarse, ma è chiaro che si traila di fondi molto consistenti. Olire al Kuwait e l'Abu Dhabi, operano nel Regno Unito gli uffici commerciali del Qatar, dell'Iran e dell'Arabia Saudita, Per tutti la consegna è la stessa: agire al riparo da occhi indiscreti. Se da una parte i petroldollari finiscono in molti rivoli diversificati dell'industria privata, una forte aliquota è destinata all'acquisto di buoni del Tesoro. Finora la reazione degli ambienti governativi è stata blanda, a differenza di quanto è avvenuto in Germania con una serie di decise prese di posizione da parte della Deutsche Bank. Non mancano comunque le preoccupazioni. Un progetto di legge, allo studio in Parlamento, dovrebbe accordare allo Stato la facoltà di intervenire per evitare che una società inglese finisca sotto il controllo straniero quando, e se, ciò fosse giudicato contrario agli interessi nazionali. D'altra parie il governo si rende conto che il riciclaggio dei petroldollari è essenziale per ridurre il deficit dei suoi conti con l'estero.