Tra le "anime morte,, di Ernesto Gagliano

Tra le "anime morte,, CHE COSA È CAMBIATO OGGI IN MANICOMIO Tra le "anime morte,, A Collegno sono scomparse le forme più vistose di violenza: da cinque anni non si ricorre all'elettroshock ("Uno strumento screditato da qualcuno che ne faceva un uso malvagio"), evitati in buona parte i mezzi di contenzione - Ma resta quell'aria di "cimitero della personalità", di gente parcheggiata - "Gestiamo l'esclusione, non la malattia" dice una dottoressa C'è verde e silenzio. La vita affannosa degli altri sembra lontana. «Guardi, anche il reparto della furia, dov'erano i più agitati, è ^comparso» ci dice un infermiere. Pastore, sindacalista della Cisl, aprendo con la chiave la porta della sezione 13. Siamo all'ospedale psichiatrico di Collegno, una serie di padiglioni circondati da una vasta trama di viali. Qualche vecchio muraglione è stato abbattuto, gualche edificio rinnovato. Vediamo che cosa, dopo tanti anni di polemiche, è cambiato. In realtà il reparto «13» non è come prima. I ricoverati non vi sono più raccolti per tipo di malattia o di comportamento, ma riuniti in base alla zona di provenienza. Ci affacciamo in giardino; gli infermieri sorvegliano, gli ospiti passeggiano. Uno va su e giù imprecando minacciosamente ("«Grida soltanto, non fa del male»J, altri stanno seduti e fissano il vuoto. Ripiegati su se stessi. Parcheggiati. Ci sono anziani («Quello era un laceratore, si strappava tutto di dosso, adesso si è calmato» ), un giovane schizofrenico che fuma, un ragazzo sordomuto in cerca di cordialità. «Vede quello? — ci spiegano — è un tipo intelligente. Ha la passione per la tecnica, si è costruito da solo un impianto telefonico interno». Ma perché è qui? «E' sordomuto. Lo hanno portato qui da bambino, ci è rimasto. Chi vuole che lo prenda?». Altri padiglioni sono ancora vecchi e tetri, con figure che si aggirano dietro le inferriate. La metà dei ricoverati (Collegno, Villa Regina Margherita, Grugliasco e Savonera hanno ora 2794 ospiti, cifra inferiore al passato) non sono dei veri psicotici, ma stanno qui lo stesso perché non si sa dove metterli. Uno è arrivato in manicomio per accompagnare il fratello ed ha voluto rimanere. «Sono pazzo anch'io» ripeteva. Ed è lì da vent'anni. Un tempo i | i I j j I ; ■ | | i più gente c'era, più le cose I andavano bene. Un criterio ' alberghiero, con regole piut- I tosto oppressive. Talvolta ri- coverati sorpresi in incontri j omosessuali venivano tratta- | ti con V«elettropube», una scarica elettrica che non ha proprio nulla di terapeutico. Adesso qualcosa è cambiato: le forme più vistose di violenza non ci sono più. da cinque anni non si ricorre più all'elettroshock («Uno strumento screditato perché qualcuno ne faceva un uso malvagio»), i mezzi di coni tenzione sono in buona par| te scomparsi. Si danno peri messi di uscire, si organizza I qualche gita. Ma è rimasta j quell'aria di «cimitero della j personalità», senza speranza, I di uomini ■ oggetto custoditi, ; tmirìti, piallati con psicofar■ maci. Molti ricoverati sono an| ziani, magari soffrono dì | sclerosi, in famiglia «dìsturi bavano» oppure messi in un ospedale normale davano I qualche fastidio. Altri non ' sono «né curabili, né perico- I losi»; altri ancora «non san- no amministrarsi da soli». E j allora li hanno man-dati a | Collegno. Nel nostro giro ci accompagna il presidente dell'Opera Pia Andrea Prete e quindi tutte le porte si aprono. Eccoci in una sezione femminile: una donna av¬ volta in un lenzuolo sta immobile su una panchina («Da anni si veste così»), un'altra è ingrassata talmente che quasi non riesce a muoversi. Davanti alla tv Passiamo in un reparto geriatrico, moderno, tutto vetrate come una serra. In un salone dove ironeggia il televisore ci sono vecchiette che vegetano in silenzio. Non hanno più nulla da dirsi. Raggiungono traguardi di longevità. Finalmente parliamo con un medico. E' il dottor Gandiglio, direttore delle Ville Regina Margherita, un tipo magro e puntiglioso. Anche lui spiega che nell'ospedale ci sono troppi ricoverati che non sono di competenza psichiatrica, che è difficile trattare con i cosiddetti «lungodegenti» che sono lì da 10-20 anni. «Lo sa che ho impiegato mesi per indurre non più di 8-10 per- sone ad uscire dalla sezione e passeggiare nel giardino interno?». Erano ormai oggetti. L'impresa è appunto questa: dare una risposta nuova che non sia la semplice custodia, spingere gli ospiti a recuperare se stessi, a esprimersi, a ricucire in qualche modo rapporti spezzati. Molti dicono che il manicomio, com'era stato concepito, non serve più. Anzi è dannoso: uno strumento di esclusione. — Che cure applicate? «Moderni psicofarmaci, psicoterapie individuali e di gruppo. Da qualche tempo funziona anche un atelier gestito da uno psicologo». Aggiunge che adesso i «presidii» di assistenza psichiatrica esterna sono un filtro un po' più efficace per i ricoveri, ma mancano ancora le cosiddette «strutture alternative», cioè i mezzi adatti a seguire il malato nel suo ambiente, in comunità-alloggio e così via. Insomma gli strumenti per non sradicarlo o segregarlo. — Serve ancora un ospedale come questo? «Si devono fare tutti gli sforzi per la prevenzione, ma penso che in certi casi il ricovero non possa essere evitato. Vorrei però che avvenisse in un ospedale psichiatrico diverso, più piccolo, meno spersonalizzante. Si devono spingere i ricoverati a recuperare se stessi». — Ma qui si può guarire? Risponde prudente: «Ci sono persone che dal punto di vista del comportamento si sono normalizzate». E racconta di una graziosa ragazza, di nome Giuliana. Era arrivata da un manicomio di Genova con l'etichetta: schizofrenica. Se ne stava tutto il giorno immobile, fissando il muro di un salone. Un assoluto isolamento, il rischio di una regressione inarrestabile. Il medico ha tentato di avvicinarla, di avviare un dialogo. Ne è venuto fuori un retroscena umano. Giuliana apparteneva a unti famiglia molto numerosa, era legata al padre. Quando l'uomo è morto, lei ha provato uno choc: studiava du maestra e ha perso un anno. Rivedendo le sue compagne è caduta in una nevrosi da frustrazione. Poi il manicomio, con quella pesante diagnosi. Poco alla volta lo psichiatra è riuscito a rianimarne la personalità. Giuliana ha trovato un posto di dattilografa fuori, ma dopo un litigio con il capufficio è ripiombata nel suo stato. Ancora il manicomio, ancora sforzi. Infine — ma erano passati in tutto 5 anni — si è inserita in un altro lavoro. «L'ho rivista, era normale, irriconoscibile». Un caso clamoroso. Ma quante vittime di tali etichette non si riprendono più? Ci sono anche immigrati dalle campagne del Sud che sono usciti malconci nello scontro con la città industriale. Magari erano fragili, magari immaturi. Ma il rovesciamento di vita, l'impossibilità di rapporti, il disa¬ dattamento hanno dato il colpo di grazia. Qualcuno ha parlato addirittura di una nuov/a sindrome, quella della nostalgia dell'immigrato. E' curabile in manicomio? O non si corre piuttosto il rischio di affossare una persona, lasciandola che si estranei e si scavi la sua tana? Molti vivono qui come in un rifugio. Fuori «c'è l'inferno». Una dottoressa, Adriana Ruschena, sospira con amarezza: «Gestiamo l'esclusione, non la malattia». Ci acco¬ glie a Grugliasco, sul terraz zo del suo reparto osservazione. Sotto, nel cortiletto, un gruppo di ricoverati gio ca al pallone. Durante la conversazione si avvicina un giovane oligofrenico: si chiama Giacomino, avrà trent'anni, sembra un bambino. E' lì tra schizofrenici, caratteriali, «personalità psicopatiche» e via dicendo. Con un pezzo di cartone si è confezionata una finta sigaretta e ci tocca la spalla per far vedere che anche lui fuma. E' bisognoso di affetto. Prima tirava i capelli a tutti come per dimostrare che esisteva anche lui. E' bastata qualche attenzione e ha smesso. La solita litanìa La dottoressa Ruschena spiega: «Occorrerebbe un lavoro preciso, nei casi dov'èpossibile, che miri alla riabilitazione. Qui manca un certo tipo di aspettativa. Il demente resta demente, l'inerte resta inerte». Ma quand'anche si raggiungesse questa riattivazione non ci sarebbero fuori gli sbocchi: famiglie che rifiutano il parente scomodo, assenza di centri di lavoro protetto eccetera. La solita litania. La parola che si sente ripetere di più è: frustrante. E' vero, la Provìncia ha avviato un piano di decentramento, ci sono équipes che lavorano fuori. La «ristrutturazione» — un motto che anche qui rimbalza di bocca in bocca — però è lenta. E non basta ancora. La psichiatria cammina su un terreno incerto (le sue «verità» ingialliscono rapidamente) e per di più si infrange contro ostacoli e preconcetti. Ci alziamo, comincia a far sera. Giacomino ci segue fino all'atrio e poi tira i capelli alla dottoressa. «E' un segno di gelosia». Ernesto Gagliano lla I 1 ' I I ! Un vecchio reparto di Collegno: qui l'assistenza si limita alla custodia (Foto «Stampa Sera» - Enrico De Angelis)

Persone citate: Adriana Ruschena, Andrea Prete, Enrico De Angelis, Gandiglio, Pastore, Ruschena, Villa Regina

Luoghi citati: Collegno, Genova, Grugliasco