L'infaticabile uomo delle nevi di Edgarda Ferri

L'infaticabile uomo delle nevi A COLLOQUIO CON IL CAMPIONE GUSTAVO THOENI L'infaticabile uomo delle nevi E' stanco della confusione, della gente che lo animali - "Correre per vincere — confida — assedia: quando ha un po' di libertà va per i boschi a guardare alberi ed è bello, ma non come correre per correre. C'è troppa responsabilità" Preso. Stava impalato in mezzo al salone dell'albergo dov'era sceso con altro nome, ma oramai tutti l'avevano riconosciuto e un semicerchio di bocche aperte gli stava alitando alle spalle. Lui non disse di si e non disse di no, un'incontro valeva l'altro. Certo, però, avrebbe preferito non parlare affatto. Non perché avesse qualcosa da nascondere, ma semplicemente perché riteneva di aver così poco da dire. Che dire, infatti, quando la sola cosa che ti vengono a chiedere da almeno cinque anni è: «Ma come si fa ad essere così bravi e cosi veloci? ». Di persona non faceva nessuna speciale impressione. Non alto, né atletico, con piccole spalle abbastanza rinserrate e grondanti, curiosi capelli disordinatamente tagliati, e la faccia non da caramella succhiata come appare in televisione o fotografia: ma più irregolare, più strapazzata anche se meno bella. In ogni caso, furono gli occhi a prendersi la parte migliore della scena iniziale, quando fra lui seduto per quella che doveva essere una «chiacchierata», e la folla che gli stava alle spalle, si scatenò la battaglia degli autografi: alcuni persino richiesti direttamente sul petto dei maglioni delle più vogliose signore, o sulle maniche di altrettanto vogliosi ma ridicolissimi signori con la pancia strizzata nel lastex dei pantaloni. Gli occhi di lui, di un celeste fondo e quasi rotondi, si fecero sbarrati, mobilissimi e foschi. Ad ogni richiesta di autografo si alzavano duri e rabbiosi, la mano correva distratta ed annoiata a scrivere, il respiro era ansante, a bocca aperta. Ignaro di quelle pupille roventi e molto esplicite, il pubblico gli si stringeva sempre più addosso finché lui non rimase quasi sepolto dentro la poltrona, i ginocchi rannicchiati come a difendersi, la testa rincagnata nel collo, e sempre quel respiro da cane braccato e gli occhi pieni di furore. Ma non protestava. Più tardi avrebbe soltanto detto: «Mi disturbano un po', è l'aspetto negativo della mia vita. E' per questo che sto bene a Trafoi». Aveva avuto un sorriso brevissimo. «Lassù non arriva nessuno: non c'è neanche il cinema». Nell'attesa di lui erano intanto venute fuori notizie, spesso contraddittorie, spesso chiaramente esagerate. Ma risultava evidente che di Thoeni si parla moltissimo, e forse non solo perché è così bravo, ma anche perché non si sa quasi niente di lui. Dunque, si diceva fosse così tedesco per via dell'educazione paterna. Al contrario, si diceva anzi che fosse molto italiano, e fiero di portare in giro sulla berretta il tricolore trionfante. Poi si disse che era completamente asservito alla volontà di questo padre rigidissimo ed esigentissimo, che a quattro anni lo aveva messo su un paio di sci costringendolo a diventare un campione; perché a lui non era riuscito di esserlo. Almeno dieci persone narravano intanto, in esclusiva, dell'incontro fra i due, l'anno scorso, quando Gustavo vinse il Campionato del Mondo, e il padre neppure smise di mangiare. Solamente, alzando la testa, gli rinfacciò quietamente che aveva commesso ancora qualche errore: non si illudesse di essere poi così bravo. I guadagni Quanto alla sua ricchezza, si diceva che guadagnasse 100 milioni all'anno più altri | sottobanco di incalcolabile : quantità. E chi andava nar; ìando della sua attività j di imprenditore alberghiero, I con un hotel in costruzione I a Bormio del costo pazzesco I di due miliardi. Infine, le donne. Chi diceva avesse già j quasi pronta la casa per la ! fidanzata di lingua tedesca, e ! chi invece giurava che il suo 1 cuore fosse invece a Torino, j presso una studentessa alla quale Gustavo aveva però rinunciato per volontà paterna, e forse anche per volontà dei suoi managers. In ogni caso, a quanto pare, lui pensa per il momento soltanto | allo sci. «Però sono stanco», informe. La voce è ormai nota per essere ancora una volta . descritta. In ogni caso, è la voce cantilenante di quasi ; tutti i valligiani altoatesini, j «Noti stanco di sciare, ma di ' questa confusione che mi si crea intorno. Stanco di sentirmi braccato, assediato». Parlava faticosamente, con la faccia, tornata impassibile, del tipo emotivo che si controlla in ogni momento. Non a caso Thoeni viene definito un pezzetto di ghiaccio, essendo le due reazioni perfettamente eguali fra loro. Che fosse emotivo non c'era dubbio, per via degli occhi infuriati fatti però rientrare senza neppure un commento, e delle mani che si torcevano sui braccioli , della poltrona. «Le mie arI rabbìature — aggiunse — soI no abbastanza paurose. Ma j non le dimostro, non le faci ciò vedere a nessuno. Mi ritii ro prima». Da parole smozzicate, amI missioni piene di pudore e i brontolìi che morivano den| tro il colletto rosso del suo j maglione, venivano fuori le j poche ore di libertà lenta| mente godute soltanto a Trai foi, «dove non c'è nessuno e io vado per ì boschi, a piedi | quando è possibile, a guardare gli alberi e gli animali». Della sua vita passata, di questo venticinquenne che a diciotto era balzato su come nessun altro nello sci italiano prima di lui, si intravedevano frammenti che, messi insieme, aiutavano molto a capire qualcosa. «Mi sarebbe piaciuto anche studiare, ma ad un certo punto ho dovuto decidere fra i libri e lo sci. Un po' di dolore c'è stato. Che cosa avrei potuto fare, se non avessi sciato? Oggi non mi viene in mente nient'altro. Oggi dico che avrei potuto fare lo sciatore e nient'altro». «Lassù — proseguì — ci sono i silenzi che insegnano a dire soltanto le cose essenziali. Figlio unico, sì: ma non coccolato. Sacrifici per diventare un campione: ma certo: sono un ragazzo, non una macchinetta. Antipatico, dicono: è il mio carattere chiuso, non mi piace perdermi nei discorsi inutili». Intanto, un vecchio maestro di sci aveva dato di lui una definizione bellissima: «Gustavo è un genio, nella sua professione: di eccezionale ha la sensibilità nei ginocchi, nei piedi. Lui sente la neve come un cieco sente il terreno. E, come un cieco sul pianoforte, lui sulla neve crea musica». — A che servono, gli chiesi, gli errori e le esperienze? «A niente, lui disse. Ogni volta si presenta una situazione nuova. Occorre sempre inventare. Dicono che io sono una macchinetta, ma non è vero». Agitò una mano e fu chiaro che anche lui sapeva benissimo che cosa si dice di lui. La maggior parte di chi lo va seguendo, non ha dubbi in proposito. « Gustavo? sostengono. Se vuole vincere si presenta, poi fa così — e qui fanno un gesto sul fianco di come si carica una molla nei giocattolini — e quando è arrivato al traguardo ha la vittoria che lo aspetta con aria vogliosa ». Gustavo negò e diventò rosso all'orlo degli orecchi ed alla base del collo. « Se fosse così, disse, non mi arrabbierei tanto quando perdo: perché è chiaro che mi piacerebbe vincere sempre». — Ma è più bello vincere o più bello sciare? fu la domanda che mi venne spontanea, perché oramai sciare per lui era come andare in scena dinanzi ad un pubblico sempre più esigente perché sempre più abituato benissimo, e sciare era come una recita, un fatto di tutti e non più una cosa privata. C'era dunque ancora del piacere a sua disposizione? "Forse no « Forse no » disse. Lo ammise quasi vergognosamen- te. Era la maggiore delle ri- nunce che gli veniva imposta. « Correre per vincere è bello, ma non è bello come correre per correre. C'è troppa responsabilità. Almeno, io la sento tutta sulle mie spalle. Se perdi, in questo sport non hai che da dare la colpa a chi sta sopra gli sci ». Avrebbe risposto a mille altre domande. Pazientemente, precisamente, senza mai protestare. Ad un certo momento, però, sembrò davvero violenza seguitare a scandagliarlo. — Come sarà il dopo? fu infatti l'ultima cosa che mi imposi di chiedergli, perché mi pareva di essere in un confessionale. « Dopo? » cantilenò tirando la parola lunghissimamente. Alzò gli occhi inquieti nei quali non esito a dire di aver visto, talvolta, qualche piccolissima però evidentissima luce di asciutta follia. « Dopo? Dove vuole che vada? Che vuole che faccia? Una volta finito, e non so quando, perché non ho mai pensato a quel momento io non conterò più j niente per quello che sono. e Di me, rimarrà soltanto quello che sono stato: ricordi ». Non era diffìcile immaginare questo dopo che, per quanto ci riguarda, vorremmo tanto lontano. Quietamente, silenziosamente, « il nostro caro Gustav » sarebbe tornato sulle sue montagne. Edgarda Ferri

Persone citate: Thoeni

Luoghi citati: Bormio, Torino