"Tacita intesa,, Washington-Hanoi ? di Vittorio Zucconi

"Tacita intesa,, Washington-Hanoi ? Affannosa ricerca di una soluzione per la guerra in Vietnam "Tacita intesa,, Washington-Hanoi ? Nessun attacco \ieiconga Saigon fino a lunedì Washington, 25 aprile. TJn'« intesa tacita » esiste tra Washington e Hanoi: i comunisti non attaccheranno Saigon almeno sino a lunedì, per consentire l'evacuazione degli americani e di quanti sudvietnamiti vogliano fuggire con loro. L'accordo, « tacito » perché raggiunto attraverso la mediazione di un Paese intermediario, ma senza contatti diretti Hanoi-Washington, è stato reso noto stamane dal leader repubblicano della Commissione affari internazionali della Camera, Broomfield, che ne ha avuto notizia dal Dipartimento di Stato. Più tardi, sembra su pressioni del Dipartimento di Stato, irritato per la rivelazione, Broomfield ha cercato di smorzare l'eco delle sue parole, che in realtà confermano quanto da giorni si va dicendo a Washington. Nel tardo pomeriggio, anche Kissinger è intervenuto per smentire l'esistenza di una « tacita intesa » fra Hanoi e Washington. Il segretario di Stato è apparso irritato per la notizia, di fonte parlamentare, e per l'eco enorme suscitata a Washington, e la sua irritazione è spiegabile: ammettere l'esistenza di un accordo con Hanoi per consentire l'evacuazione degli americani equivale all'ammissione ufficiale della fine della guerra in Sud Vietnam, e Washington non è ancora pronta (non Kissinger, almeno) ad un simile riconoscimento. L'annuncio coincide — e forse non casualmente — con il primo, serio tentativo negoziale condotto dal Sud Vietnam dopo la caduta di Thieu: il presidente Tran Van Huong (il vecchio senatore semicieco che ha preso temporaneamente il posto di Van Thieu) sta aspettando il segnale verde da Hanoi per inviare nella capitale nordvietnamita un suo rappresentante e trattare — di fatto — l'accettazione delle condizioni comuniste, con la nomina di un governo di coalizione a Saigon. Un aereo militare americano è pronto da stamane sulla pista dell'aeroporto di Saigon per condurre l'emissario sudvietnamita ad Hanoi, un'iniziativa che non solo ha la benedizione degli americani, ma forse addirittura il loro marchio. Lo sgombero dal Sud Vietnam sta assumendo un ritmo frenetico: da 5000 persone al giorno (in gran parte vietnamiti) lì è passati oggi a circa 8-9 mila e l'aviazione americana, che coordina le operazioni, si propone di portare a 10.000 — durante il weekend — il numero degli evacuati ogni 24 ore. Restano a Saigon poco più di mille americani, e il loro numero si riduce di ora in ora: il nuovo limite minimo di permanenza fissato dal Dipartimento di Stato è di 500 persone. Le forze armate Usa — marines, elicotteri, aerei — sono pronte a intervenire dopo l'autorizzazione data a Ford dal Congresso per coprire la fuga degli ultimi cit tadini e rappresentanti Usa, se sarà necessario. Tutto sarà fatto perché non un solo americano muoia ancora in terra vietnamita: i 56 mila caduti durante l'intervento diretto sono un conto già abbastanza alto per un'operazione fallita. La guerra è finita, ma il prezzo e l'ora della fine saranno fissati da Hanoi. La «tacita intesa» sembra dimostrare — come gli osservatori più responsabili indicavano da tempo — che Hanoi non vuole il «bagno di sangue» nelle vie di Saigon sotto gli occhi del mondo intero e preferisce di molto, se avrà la scelta, la soluzione politica a quella militare, essendo il risultato identico e il costo ben inferiore. Né i comunisti vogliono «umiliare» l'America, costringere .gli ultimi rappresentanti Usa ad aprirsi a colpi di fucile la via della ritirata. Non sarà sempre guerra in Indocina e Hanoi, potenza emergente del Sud-Est asiatico, sa che il futuro delle sue relazioni con l'America si gioca in queste convulse ore di agonia. Tutto questo non autorizza alcun ottimismo, né deve far pensare che Hanoi sia pronta ad accettare condizioni che non siano le sue. Il Sud Vietnam è perduto (oggi anche la maggiore banca americana a Saigon, la «Chase Manhattan» di Rockefeller, ha annunciato la chiusura della sua filiale e altrettanto farà domani la «First National»), e ciò che è in palio in queste ultime battute non è il presente — segnato ormai — ma il futuro degli equilibri politici nell'Asia Sudorientale. Quanto resta del governo sudvietnamita non è che una piccola pedina di una grande partita, la cui sola mossa residua è la resa (o il suicidio). I comunisti hanno anche oggi ripetuto le loro condizioni: 1) la rimozione degli eredi di Thieu dai posti di .governo; 2) la liberazione dei detenuti politici; 3) la creazione di un governo neutralista a Saigon; 4) l'al¬ lontanamento di tutti gli americani dal Sud Vietnam, comprese le unità militari che stazionano nelle acque territoriali sudvietnamite. L'uomo che potrebbe accettare il compito di gestire la resa di Saigon (ed essere accettato da Hanoi e dai vietcong) è il generale Duong Van Minh, «Big» Minh come era soprannominato dagli americani, «Minh il grosso». Abbastanza popolare presso le truppe, dunque in grado di controllare quanto resta (e non è poco) dell'esercito sudvietnamita, ma totalmente contrario alla politica di Thieu e fautore della «cooperazione » con i comunisti. Frattanto, 40 marines (comunica il Pentagono) sono stati trasportati nella sede dell'ambasciata americana a Saigon, che ora conta 120 soldati di guardia, armati solo con fucili, mitra e bombe a mano. Ma al largo della capitale, un'imponente forza aeronavale Usa sta formandosi: vi sono 40 navi, fra unità da guerra e mercantili, e 6000 marines, che in due ore potrebbero entrare a Saigon. Vittorio Zucconi