L'Otello fantasioso di Perlini da Shakespeare ad «Amarcord»

L'Otello fantasioso di Perlini da Shakespeare ad «Amarcord» L'Otello fantasioso di Perlini da Shakespeare ad «Amarcord» Il protagonista è un negro emarginato, che non può comunicare con nessuno - Sette le Desdemone, la più importante una ottuagenaria che parla in italiano e in dialetto romagnolo La storia del Moro e di riose incoerenti e struggenti tond e il t d'ill"Gill" l Ri La storia del Moro e di Desdemona, si sa, non l'ha inventata Shakespeare che prendeva il suo bene dove 10 trovava: in questo caso nel novelliere cinquecentesco Giambattista Giraldi detto Cintio, il quale era di Ferrara, emiliano quindi come 11 riminese Meme Perlini, autore nel senso più completo della parola di questo Otello presentato nel novembre scorso alla Biennale veneziana e approdato ora, prima di salpare per la Francia e per le Americhe, alle spiagge un po' deserte del Teatro Nuovo dal quale, come da un'isola abbandonata, s'alzano di quando in quando segnali di fumo per indicare che il teatro c'è ancora (e allora perché non usarlo di più? Il pubblico tornerebbe ad abituarvisi). Shakespeare non c'entra con l'Otello di Perlini, al più è onorato con saltuarie battute della sua memorabile tragedia, ma la vicenda del fosco generale veneziano e della sua infelice consorte c'è tutta. Soltanto, è ricondotta nell'ambito contadino e familiare di una quieta fiaba come una nonna emiliana (partiti dall'Emilia con il Giraldi, qui torniamo, saltando Shakespeare, con il Perlini: l'humus è questo) potrebbe narrarla ai nipotini e come questi potrebbero ripeterla con la crudele impassibilità per tanti luttuosi eventi che è propria dei bambini. Detto questo, non si ò ancora detto niente di uno spettacolo che è, soprattutto, un torrente di immagini, miste- riose, incoerenti e struggenti come quelle dei sogni, e che ti assalgono già nel foyer del Nuovo cosparso di piatti di carta, con un moro immobile come una statua nel suo manto dorato e, su un lettino di ferro, una bionda dormiente. Desdemona, dici subito. Piano, se Otello è uno solo, un negro emarginato che non comunica con nessuno perché si esprime in una lingua immaginaria, di Desdemone ce ne sono sei o sette. E la più importante è proprio la nonnetta emiliana di cui si diceva: una vispa ottuagenaria di nome Nerina Montagnani che parla in italiano e in dialetto e che traduce la famosa canzone del salice in una sorta di trattatello popolare sugli alberi e sui giardini. Gli altri attori, ma sarebbe meglio chiamarli figure o presenze, parlano pure essi in italiano e anche, quando non si limitano a emettere urli e lamenti, in tedesco o in inglese, che per alcuni è la lingua madre, ma resta inteso che i materiali verbali, oltre a quelli sonori affidati alla colonna di rumori e musiche di Alvin Curran, sono più scarsi e in ogni caso meno importanti degli elementi gestuali e figurativi che, nell'ampia scena di Antonello Aglioti che straripa di alcuni metri oltre la ribalta, danno nerbo e bellezza alla rappresentazione, ma non pregnanza perché da quanto si è detto si capirà che è inutile cercare in questa o quell'azione, in questo 0 quell'atteggiamento, significati e allusioni che non siano ovvii o marginali. Converrà piuttosto abbandonarsi al flusso delle immagini che ha forse il solo difetto di durare quasi mezz'ora più di quanto sia sopportabile, ma che è una delizia per gli occhi e per la fantasia (non sono queste le nostre immagini segrete, i nostri sogni proibiti, i nostri favolosi ricordi?) con un gioco di luci che alterna abbaglianti aperture su arcane e remote stanze alle sciabolate dei riflettori che improvvisamente fendono e frugano la penombra, che ora illanguidisce nel fioco lume di una lampadina di scena o di una candela che — omaggio a Eugenio Barba — vaga e striscia qua e là, ora zampilla in uno spruzzo di colori che vengono spennellati a vista, per mezzo di un proiettore, sugli oggetti e sui personaggi. E poi ci sono gli « eventi » con i quali la rappresentazione, originalissima nonostante evidenti imprestiti, vibra e palpita, s'inarca e s'allarga: la grata immensa che oscilla, i drappi bianchi e i veli neri spiegati e ripiegati, 1 giochi erotici con il pallone su una piattaforma ro¬ tonda e il cesto d'anguille vive rovesciato sulla stessa, le corse assurde e repentine per il palcoscenico, la risata di un Jago nudo o in vestaglia (sdoppiato alla fine in un bimbo che compita la novella del Moro), e persino gli urli di incitamento di Perlini ai suoi attori. E ancora un pranzo di nozze che, rallegrato da una stonatissima orchestrina felliniana, riconferma l'impronta paesana e romagnola di uno spettacolo in cui l'aria di Amarcord circola che è un piacere. Alberto Blandi "Giselle" al Regio Nel Teatro Regio gremito, è andata in scena ieri sera la « prima » di « Giselle », il balletto con Carla Fracci e Paolo Bortoluzzi, che conclude la stagione dell'ente lirico torinese. Lo spettacolo, presentato nella versione integrale curata da Beppe Menegatti per l'Arena di Verona, sarà replicato sette volte. Pubblicheremo domani la recensione. Nel foyer del Piccolo Regio rimane aperta fino al 18 maggio la Mostra del libro e del documento di danza dal 1581 al 1975.

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