Alessandria: tre giorni di terrore poi l'armata tedesca si arrende

Alessandria: tre giorni di terrore poi l'armata tedesca si arrende Accerchiata dai partigiani, è liberata il 29 aprile 1945 Alessandria: tre giorni di terrore poi l'armata tedesca si arrende Deposero le armi 24.000 nazisti del generale Jahn e 10.000 repubblichini del generale Farina, che comandava la "San Marco" ■ Il capoluogo fu l'ultimo centro della provincia a essere liberato - Le trattative per salvare dalla distruzione la città: i tedeschi volevano far saltare la polveriera di Forte Bormida L'atto di resa, firmato alle ore 15 del 29 aprile 1945, è oggi conservato ad Alessandria nell'ufficio del sindaco: «...le forze tedesche si arrendono onorevolmente sul posto: agli ufficiali è consentito l'onore delle armi personali. E' riservato il trattamento di prigionieri di guerra secondo le norme del diritto internazionale e le truppe tedesche saranno consegnate alle truppe alleate al loro giungere. Con il generale Farina è stata concordata la resa senza condizioni di tutte le sue truppe. Esse saranno concentrate alla Cittadella di Alessandria. Entreranno in Alessandria disarmate». Con queste parole una delle grandi unità nazifasciste poste sotto il comando del maresciallo Graziani — il quarto corpo d'armala «Lombardia» del generale Jahn, comprendente anche la divisione «San Marco» del generale Farina — deponeva le armi e 24.000 tedeschi e 10.000 repubblichini venivano fatti prigionieri. Qualche storico rileva che all'insurrezione popolare di Alessandria mancò «la funzione cardine» esercitata dalla città «in altri tempi e in altre guerre» e attribuisce il ritardo della liberazione all'incapacità di «un attacco risolutivo» (il capoluogo fu l'ultimo centro della provincia a cadere in mani partigiane; il 29 aprile erano già state conquistate Tortona, Acqui e Casale). Tuttavia Alessandria giocò un ruolo primario nell'insurrezione nazionale di trent'anni fa. Pur tralasciando l'importanza del bilancio conclusivo — perché la resa del corpo d'armata «Lombardia» fu «l'unico caso in Italia di una grande unità nemica costretta a scendere a patti con un Chi periferico» — le sue forze partigiane dovettero sopportare la pressione dei contingenti nazifascisti che si ritiravano dalla Liguria. Il Chi di Alessandria, presieduto dal comunista Benzi — e del quale facevano parte Fadda e Punzo, del psi; Capriata e Piccinini, del p.d.a.; Bellato e Franco, della de; Maranzana. del pli e Veggi, del pei — ordinò l'insurrezione contemporaneamente a Genova; secondo il piano «Emergenza 27». all'alba del 24 aprile, martedì, i garibaldini delle divisioni «Vigano», «Pinati Cichero» c «Mingo», i matteottini della «Marengo» e della «Italo Rossi», i gielle della «Luciano Scassi» e gli autonomi della «Patria» e della «Quindici Martiri» si misero in marcia per convergere sui centri che si distendono a raggiera attorno ad Alessandria. Il 25 aprile furono occupate Tortona, Cassano Spinola, Villavernia, Arquata, Sarissola. Busalla. Ronco Scrivia, Isola del Cantone e Ovada. Acqui si arrese alla «Vigano» tramite la mediazione del vescovo, mons. Dell'Olmo, dopo che i partigiani — per non arrecare devastazioni e lutti alla città — avevano rifiutato la proposta alleata di un bombardamento aereo della zona alberghiera dei Bagni ov'era acquartierata la «San Marco». L'indomani cadde Novi Ligure e. nella notte che segui, fu la volta di Serravano Scrivia. Subito dopo si arrese il presidio tedesco di Casale Monferrato. Su Alessandria si andarono così concentrando, in quei giorni, anche le forze nemiche scacciate o fuggite dagli altri centri della provincia. Nel capoluogo regnavano il caos e il terrore. I tedeschi avevano fatto saltare in aria le polveriere di Quargnento e di Casalbagliano. a Nord e Sud del Tanaro, e sembravano intenzionati a fare altrettanto con gli esplosivi di Forte Bormida. Le brigate nere si erano asserragliate nell'ex palazzo delle Poste circondando l'edificio di via Cavour con «cavalli di Frisia», mitragliatrici, lanciabombe. Nella notte si levavano sulla città i fuochi degli incendi, case date alle fiamme, roghi nei depositi di carburanti e di gomme. Anche la g.n.r. bruciava gli archivi; ufficiali e soldati repubblichini andavano a caccia di civili depredandoli degli abiti e delle biciclette per servirsene, poi, nella fuga. Scarse le distribuzioni di viveri, decine di negozi avevano chiuso le saracinesche: molta gente, esasperata dalla fame, invadeva le caserme e le saccheggiava; inutili erano le minacce della «Kommandanlur» di tagliare acqua, luce e gas e di far saltare i ponti sul Tanaro e sulla Bormida isolando il capoluogo. In questa precaria situazione, con l'intera provincia già liberata, il comando tedesco di Piazza ritenne che Alessandria fosse ormai perduta e intavolò trattative — tramite don Gho, canonico del Duomo — per ottenere dal Cln il libero passaggio sul Po, ai traghetti di Valenza, per le proprie truppe in ritirata dalla Liguria. Il Comilato di Liberazione non era in grado di affrontare, con i po¬ chi nuclei di Sap cittadine, la strapotenza del corpo d'armala « Lombardia » e si vide costretto a temporeggiare: se, però, una tregua poteva favorire l'afflusso in città di più consistenti formazioni partigiane (quelle di Davide Lajolo. « Ulisse », dopo aver liberato Nizza, Candii e Asti, stavano dirigendosi su Alessandria), il trascorrere delle ore ritardava la possibilità di imporre la resa al nemico e di liberare il capoluogo prima dell'arrivo delle forze alleate. Le trattative, condotte nell'aula magna canonicale del Duomo fra il colonnello Becker, da una parte, e il medico socialista Fadda c l'ammiraglio Girosi dall'altra, durarono tutto il 26 aprile: soltanto a sera si giunse all'accordo per una tregua di 24 ore durante la quale i tedeschi in ritirata avrebbero potuto varcare il Po a condizione di non attraversare Alessandria se non sulla circonvallazione esterna e di rispettare sia la vita degli abitanti che le opere pubbliche. La mattina del 27 aprile i primi reparti partigiani entrarono ad Alessandria, ottennero la resa della guarnigione tedesca del Forte Bormida. occuparono la prefettura, il municipio, parecchie caserme, la centrale elet¬ trica, quella del gas c l'acquedotto. Davanti a loro, nelle strade rese deserte dai ripetuti mitragliamenti e spczzonamenli dell'aviazione alleata (un aereo americano si fracassò fra gli alberi davanti alla stazione ferroviaria) le truppe di Salò abbandonarono il capoluogo e fra loro, vestiti da soldati semplici, vi erano il podestà Nicola, il capo della provincia Piazzcsi, il questore Neri, il commissario federale Moncro. Con l'evacuazione dei repubblichini era venuto il momento di passare all'offensiva e il comunista Giuseppe Longo (« Vinci »). succeduto a Benzi nella presidenza del Cln, si recò ad un incontro col generale Hildcbrandt — ufficiale di collegamento fra il generale Jahn e la « San Marco » — intimandogli di arrendersi con tutto il presidio. Circondato da ufficiali dello stato maggiore, Hildebrandl comparve imbracciando un mitra. Era sconvolto e in preda all'alcol: dalla Germania gli avevano appena annunciato che suo figlio era morto nella battaglia attorno a Berlino. Bruscamente, urlando con l'interprete, il generale dichiarò che respingeva qualsiasi proposta del Cln; aveva i propri cannoni piazzati sulle alture della cit¬ tà — aggiunse minaccioso — e avrebbe ordinato il fuoco su Alessandria. La storia ci ha tramandato quel drammatico colloquio del tardo pomeriggio del 28 aprile: Longo: « Non posso tollerare questo stato di cose. Esigo la resa delle armi entro dieci minuti ». Hildebrandl: «Siamo ancora molto forti. Con noi c'è anche la divisione "San Marco" ». Longo: « C'era. Il generale Farina s'è arreso ». Hildebrandl: «Non posso decidere io. Ho un comandante, debbo prendere ordini ». Longo: « Non avete più un capo. Il Fuehrer è in catene. Generale, sono le ÌS. l'ora è scaduta. Arrendetevi! ». In quel momento entrò nella sala Stefano Cigliano (« Mimmo »), uno dei comandanti delle autonome; zoppicando (aveva perduto una gamba in combattimento) si avvicinò al tavolo e vi gettò sopra un giornale. Il titolo diceva: « Himmler ha capitolato ». Hildcbrandt chiese di poter telefonare. Chiamò Valenza ed ebbe la conferma che la « San Marco » aveva ceduto alle intimazioni dei partigiani. Allora il generale chinò la testa e firmò la resa del presidio di Alessandria. La città, dunque, era libera ma ai traghetti di Valenza il corpo d'armata « Lombardia » non aveva ancora deposto le armi. Soltanto il generale Jahn poteva dare l'ordine necessario. Le trattative ripresero, condotte stavolta dal nuovo prefetto della provincia, l'azionista Livio Pivano. I colloqui si svolsero in un clima di tensione esasperata e sempre attraverso intermediari: Jahn. che con un canotto di gomma aveva varcato il Po e sembrava introvabile, faceva comunque sapere che non avrebbe mai trattato con dei « civili ». Per costringerlo alla resa, ora che le avanguardie alleate stavano raggiungendo Alessandria, il Cln, attraverso un ufficiale di collegamento, gli mandò l'« ultimatum »: o egli accettava la resa del suo corpo d'armata o sarebbe stato immediatamente attaccato dai partigiani appoggiati dall'artiglieria americana. Erano le 14 di domenica 29 aprile. Il parlamentare passò il Po su una barca messa a sua disposizione dal Cln e mezz'ora dopo, nelle scuole elementari di Valenza — sede del comando tedesco — squillò il telefono: |ahn si era arreso. Giuseppe May da