L'arte della camera oscura di Marziano Bernardi

L'arte della camera oscura DA OGGI A TORINO LE SBALORDITIVE FOTO DI IRVING PENN L'arte della camera oscura Senza scomodare Baudelaire per il suo noto giudizio sulla nascente arte fotografica: « Sono convinto che i progressi male applicati della fotografia hanno molto contribuito, come del resto tutti i progressi puramente materiali, all'impoverimento del genio artìstico francese, già così raro... Bisogna dunque che essa rientri nel suo vero dovere, ch'è di essere la serva delle scienze e delle arti, ma una serva umilissima, come la stampa e la stenografia, che non hanno né creato né sostituito la letteratura » (resoconto del Salon del 1859), restiamo in casa nostra. Scriveva da Torino nel 1875 Antonio Fontanesi ai discepoli Riccardo Pasquini e Carlo Stratta ch'erano a Villiers-leBel presso Parigi a studiare col Couture: « Il vero, il finito altro non sono che l'infinito, e la natura è come la donna, essa ha le sue intime bellezze e bontà che nasconde con pudore ai borghesi e ai fotografi... »; e l'anno dopo ancora allo Stratta: « Si ricordi che il dagherrotipo è la negazione dell'arte... », includendo nel nome della lastra metallica del Daguerre anche le stampe fotografiche su carta. Non così altri artisti ugualmente grandi. Nel suo Journal Delacroix annotava il 21 maggio 1853: «In verità, che un uomo di genio si serva del dagherrotipo come bisogna servirsene, ed egli si eleverà a un'altezza sconosciuta », intendendo però con queste parole ribadire quanto già aveva affermato in un articolo del 1850, che il dagherrotipo « non deve essere considerato che come un traduttore incaricato d'iniziarci più addentro ai segreti della natura; perché, ad onta della sua stupefacente realtà in certe parti, non è che un riflesso del vero, che una copia in un certo senso falsa a forza d'essere esatta ». Delacroix infatti concepiva la fotografia come un aiuto del pittore, se ne valse per studi di nudi e per dipingere un'Odalisca nel 1857; e non firmava il manifesto di ventisei pittori francesi, tra i quali Ingres, che nel 1862 chiedevano «protezione alle autorità dello Stato » dal minaccioso concorrente nella creazione di immagini. Lunga battaglia Questa, succintamente accennata, la situazione nel secolo scorso del rapporto — contrasto od alleanza — tra fotografia e pittura che due anni fa fu l'attualissimo tema della mostra torinese « Combattimento per un'immagine » curata nella Galleria Civica da Daniela Palazzoli e Luigi Carluccio per gli « Amici torinesi dell'arte contemporanea » (sotto la presidenza della signora Marella Agnelli) della quale — in un clima di gusto che rapidamente dilaga in tutto il mondo artistico — quest'altra mostra, «I platini di Irving Penn, 25 anni di fotografia», promossa dagli stessi « Amici » nella stessa Galleria, organizzata dalla Palazzoli e da Marcello Levi, fornita di un bel catalogo con testi della Palazzoli e del Carluccio (inaugurazione oggi alle 18), è in certo senso un logico sviluppo ed una splendida chiosa. E lo è soprattutto da un punto di vista importantissimo: che la veci-hia questione dibattuta dal tempo di Baudelaire, di Delacroix e di Fontanesi fino a pochi decenni fa, se la fotografia sia o non sia « arte », sembra — di fronte a certi risultati come quelli che si vedono ora a Torino — definitivamente superata. Sembra cioè che l'esito del « Combattimento » sia la resa a discrezione della pittura che, non più avversaria o forzatamente alleata della fotografia, la considera su un piano di parità nella funzione di comunicazione poetica. Tant'è vero che le mostre di fotografie escono dai « circoli » dei professionisti o dilettanti e salgono al rango dei musei; che si moltiplicano in ogni Paese civile le gallerie per esposizione e vendita di sole fotografie a prezzi in concorrenza con i dipinti, con le incisioni e con le litografie (un «platino» di Penn può costare anche 1000 dollari); che le fotografìe dell'epoca di Nadar, Disderi, Muybridge, o dell'epoca di Man Ray, Stieglitz fino ad Avedon, entrano ormai nel collezionismo più sofisticato. Un punto d'arrivo altissimo del nuovo movimento estetico sono i 50 « platini » di Irving Penn esposti ora a Torino, primizia assoluta in Italia. L'americano Penn, nato nel New Jersey 58 anni fa, viaggiatore in cerca di motivi con un suo portable studio dalle Ande a Londra e Parigi, da Creta all'Estremadura, dal Dahomey al Camerun, dal Marocco alla Nuova Guinea, dal Messico al Nepal, principale collaboratore fotografico dal 1943 di « Vogue » e nel dopoguerra protagonista con Richard Avedon della fotografia d'alta moda negli Stati Uniti, ritrattista di personaggi celebri come Duchamp, Picasso, Stravinsky, Cocteau, Giacometti, Jouvet, Bacon, Colette, Truman Capote, teorico della sua arte in scritti vari, è ritornato al vecchio procedimento di stampa al « platino » sviluppato con l'uso di materiali industriali attuali. Le stampe — leggiamo sul catalogo — si ottengono mediante ripetuta esposizione a contatto con negativi ingranditi, su diversi fogli preparati a mano dal fotografo con strati sensibili di sali al platino e combinazioni con palladio e iridio. Lasciamo ai competenti dii intendere i segreti di questo difficile processo, minutamente spiegato dal catalogo. Ciò che ci interessa è che ogni stampa ha in genere carattere di unicità, o quasi, in quanto da stampa a stampa, tutte numerabili, si hanno percettibili variazioni. Ne viene che il « platino » di Penn si stacca dalla consueta riproduzione grafica, sia incisoria che litografica o serica, ed è perciò paragonabile a un vero e proprio « quadro », o se si vuole, per la sua qualità di unicum, all'antico dagherrotipo. Vero creatore E' un lungo passo avanti per la qualificazione « artistica », categorica, della fotoì grafia. Di volta in volta il i fotografo — in questo caso Irving Penn — diventa creatore autonomo. Il mezzo meccanico, scatto dell'obiettivo, la manipolazione chimica della stampa, pur restando una base strumentale dell'esecuzione complessiva, passano ad un secondo, anzi lontanissimo piano nei confronti d'una sensibilità che si concreta in diretta azione inventiva; si riducono ad accessorio come per i pittori vedutisti la « Camera ottica », già nota nell'età di Durer, descritta dall'Algarotti nel suo saggio sulla architettura e pittura, usata anche dal Canaletto e dal Bel- lotto, che nessuno oserebbe per quest'impiego diminuire quali « pittori », e tanto diffusa che addirittura Gianfrancesco Costa, l'illustratore delle Ville del Brenta, si rappresentò intento a manovrarla in una sua acquaforte. Con questo metodo il Penn, abolita la descrizione ambientale, rivolto tutto il suo interesse ai valori plasti[ ci della forma umana ed agli : equilibri della composizione, e dunque sempre rigorosaI mente « figurativo », mai indulgente alla minima astrazione (tutti sanno quanto sia praticata, da Man Ray al Richter e in Italia dal Veronesi, la fotografia astratta) col puro bianco e nero o talvolta con una diffusa monocromia, e con la costruzione luminosa dei volumi, tocca il culmine della potenza espressiva. La meravigliosa serie dei suoi ritratti sbalordisce. Ma su due altri punti ci piace insistere. Uno è che la visione fotografica di Penn quando il suo modello è un nudo esotico femminile sdraiato è identica alla visione pittorica (La Grande Odalisque) di quell'Ingres che più di cent'anni fa voleva l'ostracismo della fotografia dal regno dell'arte. L'altro che il trompe-l'oeil di Penn, per esempio nel « platino » dei due uomini in maniche di camicia seduti a un tavolino, capovolge il senso del trompe-l'oeil della pittura, vale a dire abolisce il fastidio dell'inganno ottico, e da copia appunto « fotografica », quella che Delacroix accusava di essere troppo « esatta », cioè « falsa », si trasforma in effetto pittorico, vale a dire in una immagine creata, libera dalla mediazione strumentale. Marziano Bernardi