Fellini ha vinto il quarto Oscar

Fellini ha vinto il quarto Oscar AMARCORD, VILLAGGIO DELLA MEMORIA, CONQUISTA HOLLYWOOD Fellini ha vinto il quarto Oscar Il premio, per il miglior film straniero - "Padrino, parte II" di Ford Coppola è stato giudicato il più importante dell'anno: per le musiche è stato premiato l'italiano Nino Rota - Poco noti Art Carney ed Ellen Burstyn, i più bravi interpreti - Alla Bergman l'Oscar come attrice non protagonista Los Angeles, 9 aprile. Si è conclusa con una pioggia di statuette d'oro la serata degli Oscar. Questo l'elenco dei maggiori premi consegnati al « Music Center » di Los Angeles. Per il miglior film dell'anno il premio è andato al Padrino, parte II di Francis Ford Coppola. La pellicola ha ottenuto anche molti altri riconoscimenti: per regia, produzione, sceneggiatura, commento musicale e attore non protagonista. Miglior film straniero è stato giudicato l'italiano Amarcord di Federico Fellini che nella sua carriera ha già vinto altre tre statuette con La strada, Le notti di Cabiria. e Otto e mezzo. Sorpresa per l'Oscar al miglior interprete maschile. E' stato assegnato ad Art Carney, anziano attore televisivo, per il ruolo di un inse- ! gnante in pensione nel film Harry e Tonto (non visto in Italia). Carney ha battuto concorrenti molto più quotati come Jack Nicholson, Al Pacino e Dustin HofTman. Il titolo di miglior attrice è stato attribuito a Ellen Burstyn, per la parte di una casalinga nel film Alice non vive più qui (non visto in Italia). La grande sconfitta è Faye Dunaway affascinante protagonista di Chinatown. Per gli attori non protagonisti gli Oscar sono andati a Ingrid Bergman (Assassinio sull'Orient Express) e a Robert De Niro (Il padrino, parte II). L'Italia ha vinto anche un altro Oscar con il musicista Nino Rota per la colonna sonora del film di Ford Coppola. (Ap) verchi l'altro; sì che i giudici hollywoodiani hanno per quest'anno la coscienza esteticamente tranquilla, avendo conosciuto in faccia un film grande e fortunato. Dopo che le sanno tutti, non ritesseremo qui le lodi di Amarcord, così felicemente equilibrato tra memoria e fantasia, così svagato e midolioso. Ci vuole un non piccolo dono di propulsione poetica perché l'umile quotidiano di un ragazzo e della sua famiglia, e i fatti e i fatterelli e fin le vicende meteorologiche d'una piccola città, giungano a risultati di percezione universale. Il riconoscimento americano non aggiungerà molto al R'.minesn, da tanto che è ovvio; ma onora il cinema nella sua disposizione più libera da preconcetti ideologici e meno imbrattata dalle brutture del mondo. Senza voler togliere nulla al pur meritevole Lacombe Lucien di Malie, seria concorrenza non ci poteva essere per un'opera così ricca di fermenti lirico-individuali da potersi avvicinare al cinema dì Chaplin. Azzeccato il bottone del «film straniero», arrotondato il successo italiano con la statuetta al maestro Nino Rota (ecco un altro che non ha bisogno di presentazione: dal 1933 cura le «colonne sonore» nel nostro cinema e ha musicato, in perfetta simbiosi artistica, le più importanti pellicole felliniane), a Rota coautore della partitura di II padrino, parte seconda: come è andato il resto? Come quasi ogni anno, non possiamo rispondere di scienza certa, trattandosi di film e d'interpretazioni che in parte non abbiamo ancora visto. Ma si possono fare alcune considerazioni, e andare alla scoperta, fra le pieghe, di talune «sorprese». Gli Spagnoli hanno in proverbio che «nessuna seconda parte fu mai buona». Non lo vadano a dire a Francis Ford Coppola, che ha visto piovere statuette (regìa sceneggiatura commento musicale arredamento e attore non protagonista) sul suo Padrino n. 2, che è la continuazione, ancora inedita in Italia, del celeberrimo romanzo di Mario Puzo. Questo è l'Oscar di forza, l'Oscar di lingua inglese; ma che appunto perciò può destare qualche dubbio. Le vicende della famiglia dei Corleone sono entrate nella leggenda mafiosa e dalla porta della letteratura e da quella del cinema; ma speriamo, quanto al secondo, che le cose continuino meglio di come cominciarono, che il vigore non vi sia più così sparpagliato, che invece di tanti film in uno, ce ne sia uno solo e bello. Il cast, dominato da Al Pacino e in cui ha parte Robert De Niro (l'attore premiato), dà affidamento; dovrebbe saper onorare le ceneri di Marion Brando (il padrino defunto). In ombra dobbiamo lasciare anche la stima del «miglior attore protagonista»: si sa che si chiama Art Carney e che si è rivelato come «insegnante in pensione» nel film Harry e Tonto. Laddove per l'attrice protagonista (premiata come «casalinga» in Alice non vive più qui, anch'esso inedito in Italia), il nome — Ellen Burstyn — dice assai, chi ricordi L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, e, più di recente, come dalle nebbie sulfuree dell 'Esorcista, la figura della «madre», tuttoché malparlante, si stagliasse vigorosa e sofferta quasi altrettanto e più figliuola posseduta: una brava attrice che è passata, non sappiamo con quanta giustizia, sopra il bel corpo della Dunaway, eroina di Chinatown (il gran perdente). La moda «retro» (sì pensi anche al Grande Gatsby; non è uscita molto bene dagli ultimi «Oscar». Ma più ancora dà nell'occhio che il filone delle «catastrofi», così in voga presentemente, non vi abbia avuto la ripercussione che era ragionevole aspettarsi. Riconoscimenti sì, ma secondari: né Terremoto né L'inferno di cristallo, con tutto quello che son costati, con tutti gli attori che hanno ripescato e coin- volto, sono riusciti a imporre la legge, per solito infallibile, dello «sforzo di produzione»: persino in America ci hanno sentito l'ernioso, il gonfio. Si parlava di «sorprese», ed eccone una, a danno della magnificata Valentina Cortese di Effetto notte: Ingrid Bergman, migliore attrice non protagonista. I superficiali, recandosi a mente il nome la fama e l'estesa filmografia di lei, rivedendola a voi d'uccello in Per chi suona la campana, in Notorius, in Io ti salverò, in Casablanca, Stromboli, Viaggio in Italia eccetera eccetera, e anche ricordando quell'Angoscia di Cukor che nel 1945 le fruttò l'Oscar grande, difficilmente si persuaderanno che il nuovo premio non costituisca una diminutio, quasi una collocazione a riposo. E invece no; sbagliano su tutta la linea. Questo curioso (non vorremmo dire estremo) riconoscimento hollywoodiano a una delle più scritturate attrici del mondo, che fra l'altro tenne nelle sue belle mani le sorti d'un festival di Cannes (lasciandone cadere per bollore La grande abboffata;, a intenderlo per il verso giusto, è un prezioso tributo reso al senso professionale di un'attrice talmente compresa della sua dignità d'interprete da non fare differenza tra il più e il meno, tra parti grandi e piccole. Questo hanno voluto bandire i giudici della «Academy of motion picture arts and sciences»: che Ingrid, i cui natali l'indelicata anagrafe pone nella seconda decade del secolo, questa Ingrid ancora avvenente, è di quella razza che dovendo dire una sola battuta, vi si calerebbe dentro per dirla il meglio che si può. E all'insegna del «poco ma buono», del «non multa sed multum» è appunto l'interpretazione che l'ha fatta così sottilmente trionfare nel film Assassinio sull'Orient Express, dall'omonimo giallo di Agatha Christie. Rappresentava, come si ricorderà, il ruolo minore di Mary Debenham, già istitutrice della piccola Armstrong: un carattere ch'era molto più farina del regista Lumet che non della Christie. Perché nel libro ella è fiera, sostenuta e quasi aspra («La ragazza avanzò con la testa leggermente rovesciata ali'indietro, quasi in atteggiamento di sfida»), laddove nel film è tutta giocata su toni umiliati e sommessi, da rendere con un continuato chuchotement; e anche le s'indovina quell'aria di raffreddata che hanno un po' sempre le istitutrici non largamente provviste di mezzi. Reinventato quanto si vuole, questo personaggio ebbe l'ultima compiutezza dall'arte diligente di una Bergman, nel suo piccolo, grande, talché esso pareva scappato fuori, dopo anni di umiliazioni e pasti freddi, non da un esercito, ma dalla categoria stessa delle «bambinaie». E' ancora negli occhi di tutti com'ella rompesse ogni poco nel patetico, per poi ripigliarsi nell'asciutto e sibillino, quale si richiede a chi, in una vicenda poliziesca, sia fra i «sospettati». E perché il proposito di far bene quel che ci tocca fare, allunga la vita, anche sembrò che la donna fosse ringiovanita, e che intorno alla straordinaria «caratterista» albeggiasse una nuova carriera. Così la statuetta alla grande svedese, cui ricadde, per voce popolare, l'eredità della Garbo, sfuma nel morale; che è poi la tendenza generale degli «Oscar», premianti con mentalità puritana lo sforzo, la tenacia, il successo, e talvolta, di traverso, l'arte cinematografica soltanto (Fellini Renoir Hawks). Nella distribuzione di questo anno, fatta un po' alla mescolata come sempre, compaiono gli estremi e della fortuna e del merito. Via, contentiamoci. Altre volte è andata peggio. Leo Pestelli