Al ghetto non si torna di Nicola Adelfì

Al ghetto non si torna ISRAELE DOPO LE ILLUSIONI DI PACE Al ghetto non si torna Gli ebrei sefarditi, giunti dall'Africa o dal Medio Oriente, hanno i ponti tagliati alle spalle: sono i più attaccati allo Stato - La cultura religiosa combatte la corruzione del consumismo, nuovo " vitello d'oro " ( Dal nostro inviato speciale ) Gerusalemme, aprile. Ha probabilmente ragione l'egiziano Sadat quando dice che dopo tante guerre e tanto odio tra arabi e israeliani non è pensabile arrivare di colpo a una pace convinta e definitiva; e che solo il tempo e una nuova generazione potranno preparare le condizioni idonee per quella pace. Per il momento, aggiunge Sadat, contentiamoci di trovare intese limitate, ma capaci di evitare altri massacri e altre macerie. Tuttavia è difficile dare torto agli israeliani quando replicano che Sadat vuole prendere il più possibile, e che sia roba concreta, la cessione di pozzi di petrolio e di posizioni strategiche nel Sinai; ma che per corrispettivo si riserva di dire alcune paroline all'orecchio di Kissinger. Gli israeliani aggiungono un altro motivo di perplessità: chi garantisce che Sadat sarà ancora il capo dell'Egitto appena tra un mese? L'eliminazione di capi assoluti, anche se prestigiosi come Feisal d'Arabia, non è un fatto raro nel Medio Oriente. Tra i Paesi confinanti con Israele, nel Libano i governi sono sempre deboli e provvisori; netSiria dieci cono stati colpi di Stato in una ventina di anni; nella Giordania il re Hussein detiene il primato degli attentati; nello stesso Egitto, Sadat si barcamena tra sommosse popolari e intrighi tramati contro di lui dentro e fuori il territorio egiziano. Tutto sommato, concludono molti tra gli israeliani, quanto più lontane restano le linee del « cessate il fuoco », tanto di guadagnato è per noi. Sono più uniti Il primo ministro Robin, insieme con Allon, il ministro degli Esteri, e con altre personalità politiche non è dello stesso parere, ma il governo si regge su una coalizione di partiti eterogenei, e la sua libertà d'azione ne risulta limitata. Tuttavia il fatto che, dopo avere resistito alle pressioni di Kissinger, Rabin goda oggi un po' più di popolarità, indica una netta inversione di tendenza in mezzo agli israeliani: genericamente si può dire che stanno superando lo stato di depressione conseguente alla guerra del Kippur. Nell'ottobre 1973 l'imprevista irruzione degli egiziani oltre il Canale di Suez e dei siriani dalle alture del Golan provocò la caduta di due miti: quello che non ci sarebbero stati più conflitti dopo l'esaltante vittoria della « guerra dei sei giorni», e il mito di un benessere materiale via via maggiore. Quando cominciò la guerra del Kippur, curiosamente chi più di ogni altro nel governo si lasciò sopraffare dallo sgomento fu il ministro della Difesa, proprio quel Moshe Dayan che l'immaginazione popolare vedeva come un David reincarnato, « l'uomo che può tutto ». Sebbene i servizi segreti insistessero nell'avvertire che gli egiziani e i siriani stavano ammassando un esercito fortissimo per scatenare la quarta guerra contro Israele, lui, Dayan, era convinto che fosse solo una finta, manovre per turbare la festa del Kippur, come già in precedenti occasioni. Ne era così sicuro, Dayan, che si rifiutò di ordinare le più elementari precauzioni. Il 6 ottobre 1973, durante una riunione del governo, Dayan stava spiegando le sue convinzioni quando una segretaria spalancò con violenza la porta e disse: « E' cominciata la guerra ». Sapendo quanto fragile fosse il velo difensivo sui due fronti, Dayan propose lì per li la ritirata generale dal Sinai e dal Golan e di concentrare le forze disponibili in modo da difendere i punti vitali d'Israele. Come ebbe a dire Golda Meir più tardi, Dayan non appariva più lo stesso uomo. Era crollato, e a prendere in mano la situazione fu lo Stato Maggiore dell'esercito. In seguito gli israeliani ripresero il Golan e si spinsero sulla strada di Damasco, passarono il Canale di Suez e accerchiarono la III Armata egiziana aprendosi la via per II Cairo. Ma anche allora Dayan rimaneva depresso. In una riunione disse: « Se vincessimo ogni battaglia, anche in quel caso non so come andrebbe a finire. Non vedo segni di resa da parte loro. Anche se entrassimo a Damasco e al Cairo, avremmo poi contro tutto il mondo arabo, 100 o 200 milioni di arabi dall'Algeria al Kuwait. Essi hanno tempo e pazienza. Loro possono perdere, eppure rifiutarsi di parlare di cessazione del fuoco ». Nonostante il successo finale sui campi di battaglia, cominciò allora per gli israeliani un periodo nerissimo tra accuse e recriminazioni di ogni specie, una perdita di fiducia nel futuro per il fatto evidente che vincere una guerra significava perdere sempre più le speranze della pace. Intanto vedevano l'Europa occidentale, intimidita dai padroni del petrolio, allearsi di fatto col mondo comunista contro Israele; e nella stessa America aumentare il malumore contro il governo di Gerusalemme. Un periodo nerissimo, si diceva. L'economia andava a rotoli, le riserve di valuta pregiata erano quasi finite. Per la prima volta il pericolo non era solo l'arabo in agguato lungo le frontiere, ma il popolo d'Israele diviso e in conflitto con se stesso. L'israeliano tornò a sentirsi chiuso in un ghetto: un piccolo popolo su un piccolo territorio, e quasi tutto il mondo contro di lui. Specie in certi strati evoluti della società ci fu una lacerante crisi d'identità. Chi erano gli ebrei d'Israele? Avevano il diritto di esistere in uno Stato loro, indipendente? L'ebreo errante era un fantasma del passato oppure una condizione perenne, insopprimibile? Poiché è nella natura dell'intelligenza ebraica di dubitare di tutto e di rimettere tutto in discussione con ragionamenti sottili fino all'esasperazione, la violenza e la persistenza delle polemiche diffusero dappertutto un clima di confusione e di smarrimento, mentre intanto le ristrettezze dell'economia peggioravano i disagi quotidiani tra le categorie più povere. In modo particolare i giovani della sinistra laica si dicevano che lo Stato d'Israele era una creazione artificiale e anacronistica, destinata perciò a essere cancellata dalla realtà politica: i cento o più milioni di arabi, la potenza finanziaria del petrolio, il declino dell'Occidente, la penetrazione sovietica dal Mediterraneo al Golfo Persico, le tendenze isolazionistiche dell'America. Così argomentavano i giovani della sinistra laica e proponevano di emigrare in massa, di andare a combattere dovunque fosse possibile la lotta per il socialismo. Con il filosofo Sono due ore che sto conversando di queste cose con Joseph Sermoneta, uno dei più illustri studiosi di filosofia medioevale e citato recentemente da Paolo VI in una pubblica allocuzione. Sebbene abbia un prestigio internazionale e due cattedre all'Università di Gerusalemme, la maggioranza degli operai italiani sì rifiuterebbero di abitare in una casa piccola e modesta come la sua. Mattiniero come 10 sono gli israeliani, per telefono mi aveva invitato a prendere la prima colazione con lui, dopo lo spuntare del sole. La stanza dove mi accoglie, più o meno 12 metri quadrati, è il suo studio, il salotto e la sala da pranzo. Per me la moglie ha preparato caffè forte, un grande strudel, frutta e tantissima cordialità. A un certo punto Sermoneta mi dice: « Io sono credente, e penso che il Signore non vorrà abbandonarci dopo averci condotto qui e aiutato a sopravvivere in maniera miracolosa. Alle nostre spalle stanno duemila anni di esilio, persecuzioni e ultimamente il massacro di sei milioni di ebrei. Ma ora vediamo finalmente i segni della misericordia del Signore ». In questa sua convinzione lo conforta anche vedere come gli israeliani stiano uscendo fuori dalla profonda crisi di fiducia che 11 travagliava ancora nella estate scorsa. A battere la dialettica del dubbio e della disgregazione, mi dice, fu la convergenza tra l'istinto popolare e la cultura religiosa. Il sessanta per cento della popolazione di Israele è formato da sefarditi, ossia da ebrei emigrati o espulsi dai Paesi arabi dell'Africa settentrionale e del Medio Oriente. Arrivarono nella Palestina quando gli ebrei di origine europea, gli oscenaziti, avevano vinto la guerra d'indipendenza e fondato lo Stato d'Israele. Tra i due gruppi, gli ebrei europei e quelli afroasiatici, grande è la differenza culturale, sociaed economica. In genere la politica, i sindacati, la cultura e l'economia sono diretti da israeliani di origine occidentale. Tuttavia, sul piano della promozione sociale, sono gli afroasiatici, i sefarditi, che hanno avuto di più. Giunsero a Israele con pochi cenci addosso, analfabeti, avviliti da secoli di angherie. Oggi, quanto meno, non sono più perseguitati a motivo della razza e religione, i partiti sollecitano il loro voto, le condizioni economiche sono incomparabilmente migliori di quando vivevano nei Paesi arabi; e vedono i loro figli frequentare le scuole superiori, anche le università, sposarsi con ragazze ascenazite. "Meglio Masada" Ma l'elemento più importante del loro attaccamento a Israele è che non possono tornare indietro, al Paese d'origine, per esempio lo Yemen o Virale. Un medico o ingegnere emigrato dall'Italia può sempre lasciare Israele e trovare parenti e amici che lo aiutino a reinserirsi nella società italiana. Ma non è lo stesso per un contadino o un artigiano emigrato dal Marocco o dalla Siria: praticamente per lui Israele è l'unico posto del mondo dove può vivere. Per questo l'anno scorso, nel periodo cruciale della disaffezione, quando una parte della sinistra laica proponeva l'abbandono di Israele, d'istinto i sefarditi formarono un blocco compatto di resistenza, si dissero che era cento volte meglio morire combattendo per Israele che arrendersi agli uomini di Arafat o del siriano Assad o di qualsiasi altro capo arabo: « Meglio Masada che gli arabi ». Nello stesso tempo la cultura religiosa si sottoponeva a un crudo esame di coscienza allo scopo di re¬ cuperare i valori dello spirito. Ne concluse che l'euforia del consumismo, l'adorazione del nuovo vitello d'oro tra il 1967 e il 1973, aveva provocato la caduta degli ideali del sionismo, e di conseguenza la corruzione dei costumi: più egoismo, più prostituzione, più criminalità, molti intrallazzi tra il grande capitale e i dirigenti di enti pubblici. Tutti i mali della società furono allora esposti pubblicamente in piazza, ed ebbe successo un partito nuovo, quello dei « diritti civili », i fortemente aggressivo nelVesigere un radicale rinnovamento delle strutture sociali. I vecchi capi carismatici, da Golda Meir a Dayan e a Eban, vennero allontanati e sostituiti. E anche se ora quasi tutto il mondo è contro il loro Paese, gli israeliani si dicono oggi insieme col primo ministro Rabin che « non ci sarà una seconda Monaco ». Joseph Sermoneta aggiunge: « Come credente, sono persuaso che, se noi d'Israele restiamo nella via giusta, potremo adempiere i compiti assegnatici dal Signore ». « Secondo lei, quali sono quei compiti sul piano politico?». «Un socialismo dal volto umano ». Sermoneta pensa che la fonte primigenia di quel socialismo sia tutta ed esplicita nella i Bibbia. Le sue acque, come i quelle carsiche, compaiono | e scompaiono nel corso deli la storia, ma continuano il | loro cammino: le ritroviaj mo nel motto dei rivoluzio| nari francesi, « liberté, égalité, fraternité », nel movi• mento fabiano, nei socialii smi del secolo scorso e di I questo. Finora nessuno StaI to è arrivato alla costituzìoi ne di una società di uomini veramente liberi, uguali e fraterni tra loro, e la speranza di Sermoneta è che Israele infine ci riesca, possa essere cosi di modello a tutto il mondo, in un mondo diventato per sempre pacifico. Nicola Adelfì