L'opera di Nono, un trionfo di Massimo Mila

L'opera di Nono, un trionfo "Al gran sole carico d'amore,, prima al Lirico di Milano L'opera di Nono, un trionfo Uno spettacolo di teatro totale, che si è imposto per il suo valore - L'apporto decisivo della messa in scena e dell'esecuzione, con la regìa di Liubimov e le scene di Borovskij - La straordinaria direzione di Claudio Abbado, la prova del coro, la coreografìa di Jakobson - La dedizione dei cantanti (Dal nostro inviato speciale) Milano, 5 aprile. Se c'era qualcuno, nell'ampia sala del Teatro Lirico (per altro non così piena come si pensava alla vigilia) che fosse venuto con intenzioni contestatarie, sia sul piano politico che su quello artistico, se le è dovute rimangiare in considerazione dell'autorità con cui s'è imposto il valore musicale e scenico dello spettacolo apprestato per la Scala da questo « collettivo di lavoro » formato da Nono, dal regista sovietico Jurij Ljubimov, dal coreografo di Leningrado Leonid Jakobson, dal demiurgico onnipresente, diciamo pure grandissimo direttore Claudio Abbado. E mettiamoci pure, nel collettivo, il direttore del coro Romano Gandolfi, che ha dovuto prendersi un braccio destro nella persona di Vittorio Rosetta tanto è soverchiante e ardua la presenza corale dell'opera. E mettiamoci anche Tito Varisco, direttore scaligero dell'allestimento scenico, che ha tradotto in atto le belle proposte dello scenografo; mettiamoci Marino Zuccheri, il mago dei segreti elettronici, che insieme con Nono ha regolato la tecnica e la regìa del suono, eliminando ogni asprezza, ogni pretesa appariscente di tecnica fine a se stessa, ed ogni audacia riconducendo sul piano della naturalezza. E mettiamoci, infine, gli interpreti, i singoli cantanti, che hanno operato con quella dedizione appassionata, con quella devozione missionaria che la musica di Nono riesce sempre ad estorcere ai suoi esecutori. Nell'opera non ci sono personaggi veri e propri nel senso della vecchia opera psicologica. Questa, sì, è certamente morta, almeno per il momento (niente esclude che, in mutate condizioni sociologiche, possa un giorno risorgere trasformata). L'opera come forma d'arte, invece, non è morta niente affatto, ma va ineluttabilmente verso il sacrale, verso la socialità, in una parola verso il superindividuale. Tuttavia alcune ombre di personaggi, e qualche cosa di più che ombre, traversano l'opera di Nono: nel primo atto la figura gentile di Louise Michel, eroina della Comune, e nel secondo la figura della madre, dedotta da Gorki attraverso Brecht. Queste ed altre fuggevoli immagini, quasi sempre femminili, tra cui la pavesiana Deola, hanno avuto rilievo nell'interpretazione appassionata dei soprani Slavka Taskova Paoletti, Kristina Goranceva dagli incredibili sopracuti, e Franca Fabbri, del mezzo soprano Luisella Ciaffi Ricagno, del dolente e commovente contralto Eleonora Jankova. L'esecuzione Di norma, Nono privilegia le voci femminili, sia solistiche sia nel coro, e le spinge alle stelle (la Goranceva tocca un fa diesis, mezzo tono più su che la regina delle note, e il mezzo soprano Ciaffi Ricagno deve passeggiare sui si bemolle, i si naturali, come un soprano drammatico), ma nel second'atto gli uomini si prendono una certa rivincita, anche se l'opera sia proprio, dichiaratamente, un riconoscimento del ruolo della donna nella storia delle rivoluzioni: il basso Federico Davià staglia una bella figura d'operaio, Mario Basiola reca il contributo della sua versatilità ed esperienza moderna, l'altro basso Socci collabora valorosamente nella distribuzione delle parti. Di tenori, neanche l'ombra: « Non sopporto i tenori », Nono non ne fa mistero nell'intervista di Luigi Pestalozza che s'accompagna utilmente al libretto nell'opuscolo diffuso da Ricordi con dichiarazioni di tutti i responsabili dello spettacolo. Per continuare con gli aspetti dell'esecuzione, ricordiamo l'efficace risultato dei due balletti nel primo atto ideati dal coreografo Jakobson, con la partecipazione della prima ballerina Rosalia Kovacs. Il primo, una gesticolante danza dei pugni, come si potrebbe chiamare, a mimare le passioni d'una folla in tumulto; il secondo, la satirica danza degli aristocratici in fuga nei giorni della Comune. E le scene? La regia? Quelle quattro grandi tavole di legno grezzo, che si ribaltano in su e in giù, portando sopra legati, quasi crocifissi, gii elementi del coro piccolo e creando di volta in volta l'ambiente d'un nuovo episodio; quei sipari di luce, ottenuti coi riflettori puntati in avanti e verso l'alto: sono tutti mezzi volti a scandire gli stacchi tra l'uno e l'altro episodio, svolgendo la funzione che nella scrittura hanno i segni d'interpunzione. (Nono non fa mistero che, nella « completa eliminazione del personaggio come unità statica » e nel superamento dell'intreccio psicologico tipico dell'opera borghese, ha avuto molta importanza per lui « la lezione del Malipiero del¬ le " Sette canzoni " o di " Torneo notturno " », col suo sistema di opera a pannelli giustapposti per contrasto). Nessun dubbio che questa volta il « collettivo di lavoro » abbia funzionato e non sia rimasto, come spesso accade, nel limbo delle intenzioni: il risultato porta nella nostra scena lirica la testimonianza d'una civiltà teatrale che altrove può anche darsi sia pane di tutti i giorni, ma qui no, e certamente c'è molto da imparare per tutti. E' probabile che molti ljubimovini salteranno fuori nei nostri teatri lirici e no, e vedremo più d'una volta quegli straordinari effetti di luce, quei volti illuminati dal basso, quell'agitazione di mani ed avambracci nudi a simulare l'irrequietezza della fiamma. Uopera Quello che non sarà tanto facile imitare è la immedesimazione degli artisti, non si può nemmeno dire nelle parti, ma nella concezione generale del lavoro, la sofferta disciplina: le prove, musicali e sceniche, sono durate mesi, e Ljubimov non è mica tenero con quello che lui chiama « l'arbitrio individualistico » dell'attore. « L'attore è un esecutore », glielo canta chiaro nelle sue dichiarazioni per il citato opuscolo, e ha soltanto delle storie « chi si sente in dovere di difendere l'attore umiliato e offeso dalla dittatura registica ». Vero è che poi concede: « Un eccesso di indicazioni metodologiche del regista mortifica l'iniziativa dell'attore », mentre invece « l'attore deve sentire il gusto verso il lavoro indipendente ». Per una volta tanto s'è data la precedenza ai molteplici aspetti dell'esecuzione — il carattere stesso dell'opera lo richiedeva — e resta poco spazio per parlare dell'opera, cosa che del resto richiederebbe ripetuti ascolti e un'attenta consultazione della voluminosa e difficile partitura. Può sembrare strano aver parlato di « autorità » a proposito di un'opera di Nono, che per questo concetto, e ciò che esso rappresenta, non ha nessuna simpatia Eppure è proprie di autorità l'impressione che produce « Al gran sole carico d'amore » (il titolo è verso d'una poesia di Rimbaud utilizzata nel primo atto, un Rimbaud insospettatamente democratico, si direbbe un nipotino di Victor Hugo), se si rapporta questa nuova opera alla tempestosa prima veneziana di « Intolleranza 1960 ». Autorità, o forse maturità, per restare con Pavese, che nella geografia artistica di Nono sembra ormai avere preso il posto che un tempo era stato di Garcia Lorca: una sintesi di giovinezza, amore, libertà e poesia; l'elemento di dolcezza, di tenerezza in un mondo aspro e faticato. Maturità artistica e politk-a ad un tempo. Nono non ha cambiato niente della sua poetica e della sua tecnica. La nuova opera è anch'essa un trionfo della vocalità, sia singola e sia corale, anche se gli schianti dell'orchestra siano tremendi, e la dolcezza di certi episodi strumentali (le «riflessioni», come sono indicate nell'economia dello spettacelo) toccante. E se come sempre il concerto di voci femminili acutissime, nella ricerca disperata d'una' purezza stratosferica, richiama all'ascendenza veneziana di Monteverdi, bisogna dire che nel secondo atto, quando il compositore si decide a dare anche alle voci maschili qualche buona occasione, allora è il nome di Palestrina quello che più d'una volta si presenta alla mente. E la chiusa, pianissimo, per la voce di contralto col coro femminile, emula le più sublimi altezze del gregoriano. Tutto concorre a indicare la religiosità, la sacralità di cui sono lastricate oggi le strade dell'opera lirica. Non certo religiosità in senso stretto, ipotesi che Nono respingerebbe con ira, ma semplicemente nel senso di superamento dell'individuale: per il momento, è solo su questo cammino, indicato da Schoenberg e dal Dallapiccola, che la cosiddetta opera lirica può continuare ad esistere. Più tardi si vedrà. Per il conseguimento della autorità-maturità di cui si diceva, è stata certamente decisiva — oltre al naturale progresso di esperienza artistica indotto dagli anni — l'idea di prendere a soggetto principale dell'opera un episodio vittorioso, e sia pure solo momentaneamente, delle lotte del proletariato: quella Comune parigina del 1870-71, che in origine doveva essere il soggetto di tutta l'opera, e ora occupa tutto il blocco, così bene articolato, del primo atto. Ciò ha permesso a Nono quello che Pestalozza chiama giustamente il «superamento di uno stato ribellistico della gestualità teatrale» (e anche del linguaggio musicale). «Intolleranza 1960» era un gesto disperato di rivolta, di rabbia impotente. In realtà non lasciava presumere niente di buono sulle sorti del proletariato e della libertà in questo mondo schiacciato dalla repressione. Qui gli episodi non mancano. Tutto il secondo atto li usa come contrappunto dialettico j ad ognuno degli episodi sto i rici in cui si rifrange, per co¬ sì dire, il blocco iniziale della Comune: la Rivoluzione russa del 1905, Torino operaia, Cuba, il Vietnam. Ma è una repressione sconfitta, come a Cuba e in Vietnam, o comunque votata alla sconfitta, nella tranquilla sicurezza storica che ad ogni 1905 segue un 1917. Da questa inserzione storica procede la nuova maturità dell'arte di Nono. Compiuta, perfettamente organica nel blocco del primo atto. Nel secondo, per la sua struttura stessa in episodi distinti, le grandi bellezze musicali coagulano meno in organismo drammatico, e si è avvertita qua e là qualche singolare sbandata verso un realismo della parola di stampo quasi veristico, ma le gemme più preziose, dal punto di vista musicale, sono forse proprio in questo second'atto. L'esito è stato, senz'alcuna iperbole, trionfale. Finita l'opera, si è svolta in teatro una specie di festa prolungata, dove il motore era questa volta il pubblico con gli applausi, e soggetti passivi l'autore, gli interpreti e i collaboratori, o piuttosto coautori. Massimo Mila

Luoghi citati: Cuba, Leningrado, Milano, Palestrina, Torino, Vietnam