Per gli Usa quale dopoguerra? di Vittorio Zucconi

Per gli Usa quale dopoguerra? DOVE PORTA LA TRAGEDIA DEL SUD-EST ASIATICO Per gli Usa quale dopoguerra? Gli eredi di Ho Chi Minh sognano di fare del Vietnam il "terzo polo" dell'Asia, grande abbastanza per non subire le pressioni della Cina e dell'Unione Sovietica - L'America potrebbe diventarne un valido interlocutore economico (Dal nostro corrispondente) Washington, 3 aprile. Ci si può davvero stupire di fronte ai fatti d'Indocina? Il Pentagono e la Cia, che pur sbagliano previsioni militari in Vietnam da dieci anni (i comiputers applicano solo le categorìe mentali di chi li programma) aspettavano l'offensiva finale dei comunisti nel '76: è arrivata con dodici mesi di anticipo, ma non cambia nulla. La fine del Sud Vietnam era « scritta » —; per ehi la voleva leggere — negli accordi di Parigi, nell'aver accettato come « equilibrio » una situazione di fatto irrimediabilmente squilibrata. Dal punto di vista militare, la preparazione delle forze di Saigon non sarebbe stata migliore nel '76 e la leadership politica e strategica, non sarebbe potuta essere peggiore. Chi ancora crede all'utilità degli «aiuti» in extremis, osservi questo dato di fonte americana: per uccidere un comunista, nel '74, i soldati di Van Thieu consumavano in media dalle cinquanta alle centomila pallottole. Centomila colpi per un centro: o quegli uomini erano senza speranza inetti, o sparavano troppo e a caso, come sempre succede agli eserciti prigionieri della paura, sul ciglio della rotta. Ma si parla di cause psicologiche, del « senso di abbandono » che avrebbe attanagliato i difensori di Da Nang, Huè, Quang Tri. Non per mancanza di munizioni, ma per il timore di non averne abbastanza tra due mesi, tra un anno, quei soldati sarebbero dunque scappati vincendo a fucilate la concorrenza dei civili per un posto su navi e aerei. Sono argomenti sui quali neppur mette conto discutere. Le "responsabilità" Non v'è, oggi, esercizio più irrilevante del cercare le cause militari del collasso (non fino a che si applicherà Clausewitz alla guerra fra i templi buddisti) o analisi più effimera e sfuggente di quella che vuole definire le « responsabilità ». Certo, Hanoi e i vietcong hanno violato gli accordi di « pace », e altrettanto ha fatto Saigon, ma se mai un'intesa fu concepita per essere calpestata, nei fatti prima che nelle in' nzioni, questa è l'accordo sottoscritto nel gennaio '73. E' il senno del poi, questo? E' forse un'astuzia comunista per far credere che «poiché tutti hanno violato, nessuno ha violato »? Rivediamo la sostanza di quel trattato: in esso si chiedeva' a uno dei firmatari (Van Thieu) di suicidarsi politicamente per far posto a un nuovo governo e ad un altro, ì comunisti, di rinunciare ad una vittoria che non era mai stata così vicina come in quel momento. All'America e al resto del mondo si domandava infine di credere che il Sud Vietnam sarebbe riuscito da solo a fermare i « rossi », laddove cioè aveva fallito l'esercito statunitense. La posta sul tappeto a Parigi era la fine dell'intervento diretto americano, questo e non altro. Il resto era «bluff» e quando tutti i giocatori bluffano ha ragione soltanto chi vince. Ma ancora si discute di violazioni, si cerca di tirare una linea fra torto e ragione laddove torti e ragioni s'inseguono a spirale per almeno cento anni. L'atteggiamento di Kissinger, dal gennaio '73 ad oggi, non potrebbe essere più eloquente. Il segretario di Stato non poteva nutrire alcuna illusione sulla sorte della pace indocinese: dal giorno della firma del trattato, Kissinger ha ignorato il Sud-Est asiatico, che pur apparve una delle sue massime conquiste, con tale applicazione e costanza da non lasciare dubbi su quante speranze di salvezza egli vedesse per gli alleati indocinesi dell'America. Il Kissinger del '73 non era il Kissinger di oggi, ormai in declino: un suo richiamo fermo e chiaro ad Hanoi, a Mosca, a Pechino, non avrebbe forse arrestato il disfacimento indocinese, ma avrebbe almeno dimostrato che Washington attribuiva qualche valore alla carta di Parigi. La sola prospettiva seria di analisi è ormai il dopoguerra, il futuro del. SudEst asiatico e della sicurezza -internazionale. Il resto è polemica di partito, macabro (e strumentale) rimescolamento dì passioni fra le quali la sola accettabile potrebbe essere la pietà. E al futuro guardano gli uomini più responsabili del governo americano vedendovi un dato ben chiaro: il Vietnam uscirà dal conflitto come la nuova « potenza » asiatica, carico di un prestigio che non trova riscontro neppure nella «lunga marcia» maoista, che avvenne entro un universo in decomposizione come la Cina e non contro la prima potenza mondiale. Con molta discrezione, Hanoi ha già lanciato segnali ai governi vicini, dalla Thailandia al Laos all'Indonesia e alle Filippine, per preparare il domani del SudEst asiatico. Il sogno degli eredi di Ho Chi Minh (l'uomo che — pochi sanno — per trentanni chiese alla Casa Bianca, dal presidente Wilson a Truman, tutela americana per l'irredentismo vietnamita, ri¬ manendo inascoltato) è fare della zona il «terzo polo» del continente asiatico, un « polmone » grande abbastanza per respirare fra la pressione della Cina e dell'Urss. Di nome socialista, di fatto neutralista, e guidato da Hanoi, con l'obiettivo ' di sfruttare per la ricostruzione il meglio offerto dalle superpotenze in concorrenza fra loro. Una sfida diversa Il Nord Vietnam ha già fatto sapere di essere disponibile a forme di cooperazione con il capitale occidentale, e giapponese: è curioso notare che David Rockefeller (fratello del vicepresidente americano Nelson), forse il più celebre « capitalista » d'America, era presente al Dipartimento di Stato, lunedì scorso, in una riunione segretissima sull'Indocina voluta da Kissinger. Il problema che si pone oggi all'America non è salvare Van Thieu o la capitale cambogiana, ormai entrambi irrecuperabili, ma mettersi in condizioni di non essere travolta — core iniziative avventate — dal crollo di quei regimi, nei quali l'anticomunismo e il noncomunismo dovrebbero rifiutare rigorosamente di identificarsi. L'America deve mettersi in una posizione che non la escluda per sempre dal Sud-Est asiatico, come interlocutore economico. Nel 1954, subito dopo la sconfitta francese e la pace di Ginevra sul Vietnam, i servizi segreti americani sconsigliarono a Eisenhower di legare l'America a un regime anticomunista nel Sud, che non aveva «a lungo termine, nessuna probabilità di sopravvivenza». Per una volta che azzeccò un giudizio, la Cia non fu ascoltata: ora, ventuno anni do¬ po, a Gerald Ford è offerta l'occasione di liquidare una politica che è servita, in ultima analisi, soltanto agli scopi degli avversari, aggiungendo alla vittoria militare dei comunisti anche una patina di dignità morale. L'era dei «ponti aerei » per fermare il comunismo ha fatto il suo tempo: dal Terzo Mondo, dall'Africa e dall'Asia, viene all'America una sfida diversa, lanciata da nazionalismi nuovi, carichi' di paure, insicurezze, confuse ideologie, alla quale il mondo non comunista non può più rispondere, per la sua stessa salvezza, con ì Van Thieu e i Lon Noi. La sicurezza del domani, la sicurezza di noi tutti, dipende dalla misura in cui pacificamente e senza accecamenti ideologici, l'America e le al: tre potenze occidentali sapranno rispondere a questa sfida. Vittorio Zucconi