Il kibbutz sul confine di Nicola Adelfi

Il kibbutz sul confine ISRAELE DOPO LE ILLUSIONI DI PACE Il kibbutz sul confine li villaggio di Baram sorge a 300 metri dal Libano: rifugi blindati, riflettori lo proteggono dai fedayn Intorno, campagne coltivate, una industria elettrochimica: il pericolo non compromette benessere e serenità j (Dal nostro inviato speciale) | Alta Galilea, aprile Baram in lingua ebraica significa « figlio del popolo », ed è il nome di un villaggio comunitario, un kibbutz nell'Alta Galilea, a trecento metri da quella parte del Libano dove numerose sono le basi di guerriglieri palestinesi, i fedayn. Sebbene i pericoli siano così immediati, Baram è un luogo di tran- quillità e di lavoro, curato i fin nei mìnimi particolari per dare ai suoi 400 abitanti un senso di cordiale benessere, diciamo anche di grande pace interiore. « Ma se in una notte senza luna, magari favoriti da un temporale, qualche centinaio di fedayn, armati di tutto punto, anche con artiglieria portatile, si avventasse di sorpresa sul villaggio, che ] cosa avverrebbe, come potre¬ ste difendere la vita dei vostri 170 bambini? ». Così domando a Yoram Luzzatto, un uomo tutto muscoli, viso aperto e occhi limpidi, alla triestina Schwarz, bella e arguta come lo era Katharine Hepburn negli anni della gioventù, alla romana Noemi Fersen, la moglie del regista. E tutti si mettono a ridere come se avessi detto una spiritosaggine. Non è possibile, mi spiega Luzzatto, e mi porta a vedere i rifugi blindati, i camminamenti fo- derati con bande metalliche. i riflettori sulle torri di legno, un bunker, i rotoli di filo spinato lungo il perimetro del villaggio. Però, insisto io, sono appena trecento metri che vi separano dalle formazioni dei fedayn. Yoram Luzzatto mi risponde che bastano per far scattare un complesso sistema di allarmi in modo che ogni « compagno » si tro- vi nel giro di pochissimi mi- nuti al suo posto di combattimento, i bambini siano messi al sicuro nei rifugi, con la radio avvisati i più vicini reparti dell'esercito israeliano. E poi. mi lascia capire Luzzatto, trabocchetti, agguati e appostamenti non visibili sono dappertutto nel villaggio, e la difesa è congegnata in modo che ciascuno sappia in ogni istante quel che gli altri stanno facendo, dove siano gli amici e i nemici uno per uno. Vicini violenti Però, ribatto io, come si fa a vivere normalmente, ad andare a lavorare anche lontano di qui sapendo che terroristi fanatici e astuti sono così vicini, che un cecchino in qualsiasi momento potrebbe centrarvi in mezzo alla fronte o una granata esplodere lì per esempio, in quel campo di pallavolo dove ora stanno giocando una trentina di ragazzi? Come si fa a vivere un giorno dopo l'altro, da anni ormai, avendo sempre accanto una pistola mitragliatrice, a tracolla durante il giorno e sul comodino durante la notte? Il nostro è un colloquio tra sordi. Più ne parliamo e meno riesco a convincermi che una condizione permanente di pericoli mortali e armi dappertutto, anche su delicate spalle femminili o tra le mani di ragazzi appena usciti dall'adolescenza, possano coesistere con un clima disteso, tenere i bambini allegri, gli uomini intenti alle loro opere quotidiane. Mi sembra inverosimile, assurdo. Per esempio, dico, quel trattore che sta ora uscendo dal villaggio non potrebbe saltare su una mina collocata un minuto fa da un fedayn? Ebbene, mi si risponde, guardi il sedile; è costruito in modo che se scoppiasse una mina, l'esplosione getterebbe il guidatore fuori del trattore ed egli se la caverebbe con qualche ammaccatura. Dunque è tutto qui il segreto del buon vivere a Baram: un'organizzazione difensiva perfezionata giorno per giorno e l'abitudine a considerare il pericolo come un aspetto normale nella vi¬ la quotidiana, fin dalla prima età. Interviene la triestina elegante, arguta, la Schwarz. Vive nel kibbutz da venti anni, è stata due volte in Italia, ci fu per un mese l'anno scorso, e non vedeva l'ora di tornare qui a Baram. A Trieste, a Milano, a Roma stava sempre a domandarsi sgomenta come potesse la gente vivere tra tanta aggressività, tra tante tensioni nervose, assalita sempre da ansie, angosce. Si sentiva confusa specialmente perché non riusciva a capire i motivi di tutto quel nervosismo. Nei nostri salotti Nei salotti la gente non parlava d'altro che dei sistemi di allarme impiantati nelle case contro i ladri. Le dicevano di non passare per certe strade perché i giovani prendevano gusto a insolentire i passanti; e dì non uscire di notte, comunque mai sola. Le città in Italia sono impregnate di gas mefitici, ai semafori appena scatta il verde subito cominciano a clacsonare. E poi gli assalti di banditi alle banche o alle Poste, i negozianti uccìsi, il sequestro anche di bambini, gli scontri in piazza, gli scioperi... Insomma, come fa la gente in Italia a reggere il peso di un'esistenza così convulsa, esasperata, a sentirsi spingere da mani oscure e violente verso un baratro ignoto? E che fa se non imprecare, dannarsi l'anima? A Baram invece è tutto diverso. Sì, c'è il pericolo dei fedayn, ma la loro violenza non nasce da una specie di isteria collettiva; e per fronteggiarla sono state prese le più attente precauzioni. Anche i fulmini a volte uccidono, però chi sta a pensare che potrebbe scoppiare un temporale e un fulmine ucciderlo? Dunque perché crucciarsi? E chi ne ha il tempo con tutte le cose da fare in una comunità nata appena 25 anni fa in una regione incolta e disabitata tra i monti, a 700 metri di altitudine? Solo 25 anni fa? Se non mi mostrassero le fotografie dei primi insediamenti di pionieri con le tende bianche a cono, e il paesaggio desolato, solo pietre e bassi cespugli, stenterei a crederlo. Perché oggi Baram è per davvero un gran bel posto; e se vi inerpicate fin lassù da una città costiera, Haifa per esempio, vi affascina la suggestione di avere compiuto un lunghissimo viaggio nel tempo e nello spazio. Nel tempo, duemila anni fa, quando si formarono le prime comunità cristiane, quelle descritte negli Atti degli Apostoli, dove « formavano tutti un cuore solo e un'anima sola, e non v'era alcun bisognoso tra essi ». E un gran viaggio nello spazio: non verso il verde pulito della Svizzera convenzionale, ma piuttosto verso mitici luoghi del Tibet fuori di ogni contaminazione consumistica. Ma sono solo suggestioni provvisorie. Quelli di Baram vivono con gli occhi aperti nel tempo presente e da esso cercano di avere tutto il bene che gli può dare, compresi gli agi materiali. Anche se nei discorsi degli anziani potete avvertire note di nostalgia per il tempo in cui il cibo era poco e incerto, le tende l'unica dimora, e talvolta un fortunale le strappava via, e allora le donne correvano a rifugiarsi in qualche grotta difendendo col calore del loro corpo la vita dei figli più piccoli; ora tuttavia prevale tra gli adulti un senso di orgoglio per tutto ciò che hanno saputo costruire e per l'elevato tenore di vita che sono riusciti a dare alla loro comunità socialista su solide bas' di sviluppo per l'avvenire. E pensare che in questo come in ogni altro kibbutz non ci sono capi, non esistono leggi scritte, non sarebbe tollerata neppure l'ombra di un poliziotto o di un giudice o di qualsiasi altra autorità. Una volta la settimana « i compagni » si riuniscono in assemblea generale, si dicono come vanno le cose nei diversi settori, e concordano le decisioni che ritengono più convenienti. Abolita la proprietà privata, l'obiettivo è migliorare le condizioni generali di vita. Nessuno ha un salario, ma tutti ricevono la stessa somma mensile per « le piccole spese », poche migliaia di lire. Non per questo « i compagni » si sentono poveri. Tirate le somme, il tenore di vita nei kibbutz è notevolmente più alto di quello medio tra gli israeliani. Il salone da pranzo a Baram regge benissimo il confronto con quello di un buon albergo italiano di seconda categoria; e nessuno sta a guardare quanto cibo il vicino mette nel suo piatto. La cucina è buona, cosi l'umore, nessuno fa caso alle mitragliette poggiate accanto ai piatti, molto il chiasso tra i bambini lasciati a se stessi. Per me la piccola, gentile moglie francese di Yoram Luzzatto ha preparato nel suo cucinino una squisita torta di frutta e moltissimo caffè ristretto, all'italiana. Di suo non ha dovuto spendere una sola lira: i magazzini sono sempre aperti per tutti, e ciascuno può andare lì a prendere quel che vuole e finché ne vuole. E se c'è chi fuma tre pacchetti di sigarette il giorno, molti invece non fumano, e così anche per i generi voluttuari i consumi finiscono con l'incidere in misura più che tollerabile sull'economia generale del kibbutz. In precedenza ho spesso usato la parola « villaggio :>, ma in realtà le casette unifamiliari sono sparse qui e li tra pini, abeti, acacie, le I strade sono viottoli tra prati e aiuole ora illeggiadrite I dalla fioritura di violette, anemoni e ciclamini. Gli uccelli, tantissimi uccelli, cin- | gallegre e fringuelli, torto- ! re e capinere, si scostano | appena di poco quando gli passate accanto e vi guardano impermaliti, starei per j. dire offesi, se tendete una mano per toccarli. Qualche volta tra questi monti nevica, e ora il kibbuz sta discutendo se acquistare qualche dozzina di paia dì sci. Però c'è la guerra, una gran brutta faccen- | da con tutti i soldi che bisogna spendere per la difesa del kibbutz. A un certo punto, così per ridere tra noi, dico che casette cosi graziose, con mobili di stile svedese, che tutto quel benessere che vedo in giro, \ mi fanno sospettare che die- \ tro ci sia denaro passato sottomano dagli sceicchi del petrolio, magari da qualche gruppo di fedayn. E ripeto lo scherzo quando vengo a trovarmi nel teatro quasi ultimato, capace di accogliere seicento persone, con strutture modernissime. Quante centinaia di milioni sarà costato? E da dove salta fuori tanto denaro in una comunità montana così piccola, a due passi da terroristi sempre in agguato? Proprietà comune « Dalla buona organizzazione », mi risponde Yoram Luzzatto. Il kibbutz possiede 60 ettari coltivati a frutteto, e grandi sili con l'aria condizionata per conservare i raccolti e venderli via via aspettando le condizioni più vantaggiose di mercato. Altre decine di ettari sono destinate c piantagioni di cotone, e al fieno per le mucche, ai mangimi per il grande pollaio, all'orticoltura, al vasto allevamento dì carpe. Altro denaro affluisce al kibbutz da una industria elettrochimica. E lavorano tutti con un impegno che nasce dal sentimento che il kibbutz è una proprietà comune, il migliore dei posti dove vivere secondo un chiaro modello socialista, costruito con molte fatiche per sé e per i propri figli. Così mi dice Yoram Luzzatto, e io domando: « Ma nessuno tra voi fa il furbo? ». No, nessuno; se uno si sente furbo, lascia il kibbutz e va ad arrangiarsi nelle grandi città. Ma è molto raro. Qualunque cosa accada, uno nel kibbutz si sente protetto dalla culla alla tomba; e lo spirito di libertà, di uguaglianza e di fraternità non sono espressioni retoriche, ma elementi spontanei nei rapporti tra le persone. In definitiva il kibbutz è come una famiglia, e se i bambini sono chiamati « i figli del kibbutz », neppure questa è retorica. Tant'è vero che quando nell'ultima guerra, quella del Kippur, un ragazzo di Baram morì al fronte, lo pianse indistintamente tutto il kibbutz perché tutti nel kibbutz lo avevano visto appena nato e poi aiutato a crescere un giorno dopo l'altro per venti anni, mangiando, lavorando e anche ballando con lui. Nicola Adelfi