Parlare italiano

Parlare italiano TRA LINGUA E DIALETTI Parlare italiano Nel centenario manzoniano si parlò molto del problema della lingua; ma vorrei chiarito cosa desiderino gl'italiani d'oggi: lingua uniforme o diversa secondo regioni? orientata verso una sia pur remota unità linguistica europea, o che tenga preziose le proprie particolarità? Non son certo dei punti di partenza di Manzoni; che parlava ed amava il suo dialetto ed era uomo lontano dalle utopie, sicché conosceva che ancora per varie generazioni il popolo avrebbe parlato in dialetto ed in molte regioni neppure compreso l'italiano, e che quasi dovunque, tolta la Toscana ed un po' di Umbria e di Lazio, anche la borghesia avrebbe usato il dialetto come lingua domestica e l'italiano come lingua colta, per lezioni, discorsi, omaggi a personalità; e del pari conosceva che da secoli un libro scritto in italiano, fosse di religio ne di diritto di scienza, era letto egualmente a Trento ed a Siracusa. Forse aveva presente un dato cui non pensiamo, la pronuncia; certi bei discorsi che leggiamo negli atti parlamentari pare fossero pronunciati con tali intonazioni e cadenze dialettali, persino da chi teneva cattedra di letteratura, da suonare incomprensibi li a persone di altre regioni. E sicuramente al coltissimo Manzoni era presente ciò che aveva rappresentato Lutero per il tedesco (Guzzo, De Negri, di recente La Pera Genzone ci hanno ricordato l'arricchimento del lessico tedesco attraverso la traduzione della Bibbia, ed adattamenti che toccano concetti essenziali religiosi, l'Incarnazione che tradotta in Menschwerdimg introduce l'idea del divenire). Ma più ancora aveva presente l'opera unificatrice di Luigi XIV, rievocata nel bel libro di Scibilia, Il secolo di Luigi XIV, l'opera per cui « una lingua segregata per mezzo secolo come pianta da serra sviluppò in sé un senso tutto suo della clarté e delle nuances », così « fu lo strumento duttile di organizzazione delle nuove idee e veicolo della loro penetrazione, cooperando in tal modo a preparare la Rivoluzione francese ». Non è improbabile che ad una tale lingua, permeata appunto delle finezze e dell'arguzia toscana, pensasse Manzoni: senza alcun intento di far venire meno i dialetti, ma mantenendo i due piani distinti. Ma poiché, come avverte Scibilia, anche qui c'è sempre una scelta politica, credo che oggi l'orientamento italiano sia invece quello dei francesi che rimpiansero fosse stata tolta robustezza e genuinità alla lingua. Si desideri cioè una lingua che non elimini parole sonanti, evocanti anche immagini spiacevoli, che abbiano in sé un certo grado di violenza, che non si dimentichino facilmente. E certamente una tale lingua accomuna le classi, mentre una ricca di sfumature, di distinzioni, le tiene separate. Quello che chiamiamo impoverimento (la quasi eliminazione del congiuntivo, la eliminazione dei le e loro sostituiti dal gli) ha avvicinato la parlata di tutte le classi. Peraltro un rinnovo continuo delle lingue con parole od espressioni vigorose, quasi sempre di origine anonima, popolare, spesso attinte dal dialetto, allarga le distanze tra le lingue, quanto meno riduce il numero di chi sappia comprendere lingue diverse. Il numero dei non francesi che leggono Balzac come Zola come Mauriac è molto superiore a quanti possono gustare Zizi dans le mètro. Si scrive spesso che non è esistita una letteratura popolare italiana; non so cosa s'intenda. Certo, dato il numero ingente d'italiani che si sono arrestati alle prime classi elementari, che non leggono, diffusioni enormi non sono pensabili. Ma nel secolo scorso la diffusione ci fu non solo dei Promessi Sposi, bensì dei romanzi storici di D'Azeglio e di Guerrazzi, e più tardi esisterono scrittori largamente letti, da De Amicis a Neera, a Fogazzaro, a Rovetta. Se si scende ad un livello più basso, possiamo menzion e Mastriani e l'Invernizio. E la recente diffusione del libro della Morante non dice qualcosa? Che se poi s'intenda, per letteratura popolare, libri di lotta di classe, anche questi ci sono, e dei buoni (in un'unica direzione: i romanzi popolari che per circa un secolo hanno avuto diffusione in Francia a base del nobile generoso, padre del villaggio che protegge dall'invasione dell'industria che porta con sé la corruzione ed il vizio, sono ignoti all'Italia). Altro punto: lingua e dialetto: due cose vive entrambe, e che entrambe si rinnovano sempre. Il dialetto è una ricchezza; le buone ore che mi hanno dato Benini e Govi, ancor da ultimo alla televisione Scarpetta interpretato da De Filippo, quel che ha rappresentato Trilussa, non posso dimenticarlo. Dialetti accessibili a tutti gl'italiani, specie quando il teatro li addomestica fuori della loro regione, come il veneto, grazie a Goldoni, il romanesco perché più italiano deformato che dialetto a sé, il napoletano; e dialetti meno noti; malgrado il Porta, il milanese è poco accessibile (e come rimpiango che l'altissima poesia di Biagio Marin non consegua l'enorme diffusione che meriterebbe per la necessità di un glossario per ben intendere ogni termine del dialetto di Grado). Commedia e poesia dialettale, ma di soggetto valevole per ogni ambiente, come le Miserie 'd Monsù Trave! di Bersezio o Zelile re/ada di Gallina; o legata ad una città o regione, come Miseria e nobiltà di Scarpetta o com'era Il repertorio di Giovanni Grasso. Mescolanza di lingua e dialetto. Manzoni se ne astenne rigorosamente; un manzoniano come Emilio de Marchi immise qualche espressione dialettale, che non arrestava neppure l'italiano delle più lontane province; Fogazzaro abbondò un po' troppo nelle novelle. Il cinema e la radiotelevisione stanno largamente immettendo, con fastidio specie dei settentrionali, il roma nesco nei film (e la televisione deteriorando l'italiano). Mi pare che la Morante abbia fatto lo stretto indispensabile ed efficace uso di termini romaneschi. Qui pure occorre scegliere: narrativa per tutti gli italiani o per quelli di determinate regioni? Di recente è uscito un romanzo che dicono sia molto notevole; c'è chi lo ha paragonato alVUlysses di Joyce, qualcuno ha pur parlato dell'Odissea. Ho cominciato a leggerlo e preavvertivo un largo respiro, amavo il bel periodare italiano; ma dopo non molte pagine mi arrestai; verbi ausiliari, preposizioni, congiunzioni, avverbi in italiano, ma quasi tutti i sostantivi in un idioma a me ignoto, né i vocabolari mi aiutavano. Mi hanno detto che si tratta di un idioma, ricco di parole significative, non di una regione, ma di una piccola zona, tra le più belle d'Italia. Spero il capolavoro sia tradotto e possa leggerlo in una lingua che conosca. Ed in questi giorni sento anche di un matrimonio celebrato in occitano; e penso con letizia al molto lavoro che verrà ad interpreti e legali da controversie se si generalizzano dialetti mi¬ nori o lingue del passato; la lite sull'interpretazione di un contratto emergente da uno scambio di lettere, una in friulano e l'altra in occitano. Ma parliamo seriamente: dove vogliamo andare; verso le fusioni od i parcellamenti? verso la letteratura per la massa o quella per i piccoli gruppi? (E come sarci lieto se leggessi che, accantonate le grosse questioni, si cercano maestre in grado d'insegnare ai bambini degl'immigrati in una prima classe nel dialetto locale, indicando solo l'equivalente italiano di pochissimi termini, per poi mettere sempre un po' più d'italiano, conducendoli alla quinta, od al più alla scuola d'obbligo, nella condizione dei moltissimi che senza difficoltà parlano, secondo i luoghi ed il momento, il dialette- o l'italiano). A. C. Jemolo