Le quattro sfide all'America di Vittorio Zucconi

Le quattro sfide all'America Kissinger tra difficoltà interne e internazionali Le quattro sfide all'America «lo mi considero uno storico più che uno statista», disse Henry Kissinger a James Reston, nella famosa intervistafiume dell'ottobre scorso. E aggiunse di essere consapevole, come storico, «del fatto che la storia è un succedersi di sforzi falliti, di aspirazioni non realizzate, di desideri che in un primo tempo sono stati soddisfatti e il cui risultato poi si è dimostrato diverso da quello che ci si aspettava». Ora ci si domanda se quelle parole non avessero un sapore profetico, mentre l'intera costruzione diplomatica americana, la più complessa mai architettala da un segretario di Stato, vacilla sotto i colpi di troppe circostanze avverse. Kissinger è apparso stanco e amareggiato nella conferenza stampa dell'altro ieri, pur se parlava, è ovvio, non come uno storico, ma come uno statista, il quale «agisce in buse al presupposto che i problemi devono essere risolti». Ma come risolvere tanti problemi contemporaneamente è appunto la sfida inquietante di queste ore, in un'America, oltretutto, già attaccata dalla nevrosi pre-elettorale, essendo appena uscita dalla crisi traumatica del «Walergate». La sfida viene, per cominciare, dal Medio Oriente, dove è fallito il tentativo di Kissinger di fare della soluzione della storica disputa arabo-israeliana un «affare americano». Ora, finita la spola tra Gerusalemme e le capitali arabe, con solo i l'obbligo di cortesia di infoi- marne saltuariamente Grorayko, il segretario di Slato deve concordare con la controparte sovietica i modi e i tempi del negoziato corale di Ginevra, unica alternativa rimasta a una quinta guerra nel deserto. E se pure sarà possibile ottenere da Mosca un contributo costruttivo e sereno, bisognerà pagarne il prezzo politico, in termini di garanzia congiunta, e di influenza congiunta, in un'area cruciale, che si credeva sottratta in buona misura ai giochi di potenza dell'Urss. Poi la sfida viene dal fronte del petrolio, strettamente connesso con quello mediorientale, mentre si cerca di valutare fino a che punto la morte di Feisal possa avere introdotto una nuova variabile in un discorso che era straordinariamente complesso di per sé. L'obiettivo fondamentale, anche da questo punto di vista, è quello d'impedire che la crisi araboisraeliana precipiti, poiché già si riaffaccia, su qualche giornale arabo, la sinistra ipotesi di un nuovo «embargo». Ma anche se il peggio sarà evitato, restano lutti i nodi di una strategia che deve conciliare troppe cose, dal necessario dialogo con l'«Oil Power» alla ricerca, ancor più vitale, di un'autonomia economica e politica delle società industriali d'Occidente. E poi ancora la sfida viene dall'Indocina, dove la «fragile pace» di due anni orsono si è tramutata in una solida guerra d'attacco, che sottopone a una prova durissima le residue capacità di sopravvivenza del regime di Saigon, mentre in Cambogia, dove la guerra non si è mai fermata, si vivono le ore dell'agonia. Kissinger dice che la caduta del Sudvietnam avrebbe «l'effetto di un cataclisma»: forse esagera, ma non è da sottovalutare l'impatto, sulla «credibilità» della massima potenza occidentale, di una conquista comunista di Saigon, o almeno di una conquista «prematura», rispetto ai calcoli che erano dietro la «fragile pace» del '73. E infine la crisi della Nato, fra i pericoli di un autoritarismo militar-marxista in Portogallo, che avrebbe, a più o meno lunga scadenza, sbocchi «nasseriani», il disimpegno greco e le inquietudini turche, nella scia dell'altra crisi «eterna» del Mediterraneo, che è la crisi di Cipro: questo, mentre «l'instabilità politica getta un'ombra lunga sulla prospettiva di un'Italia come partner militare», secondo il giudizio di Newsweek, Qui bisogna dire che, se è temibile lo spazio che si apre all'iniziativa, o anche solo alla forza d'inerzia della superpotenza sovietica, l'ingresso della Spagna franchista nella Nato, di cui ora si parla, è inaccettabile come rimedio o alternativa. Per una duplice ragione: perché bisogna salvare lo spiri¬ to liberale dell'alleanza e perché il rimedio sarebbe solo apparente a transeunte, e anzi controproducente in prospettiva, identificando la Nato, agli occhi dell'opinione democratica spagnola, come già di quella portoghese, con un declinante regime autoritario di destra. Vincere questa sfida complessa e multiforme e l'estrema fatica cui è chiamato Henry Kissinger, se ne ha ancora la forza e il tempo; ma senza dimenticare che salvare il quadro internazionale, il sistema di equilibri da lui disegnalo, pulirà errori e contraddizioni, è un interesse di tutto l'Occidente, oltre il concetto dell'»egemonia americana», del resto tanto più ovvio finché dura il vuoto europeo. Almeno in teoria. ln pratica, per effetto dei «dieci anni di turbamenti interni» ricordati da Kissinger, anche la volontà di egemonia è in discussione, a giudicare dai sondaggi popolari: su dodici teoriche minacce al primato degli Stali Uniti, dall'invasione dell'Europa dell'Ovest al collasso d'Israele, una maggioranz di americani ha ritenuto degna di una reazione militare di Washington solo l'invasione del Canada. E anche quest'aspetto della crisi americana, o soprattutto questo, è da tener presente, nel giudizio degli europei. Aldo Rizzo (A pagina 18: Prova d'appello per Kissinger. Di Vittorio Zucconi). i vcj P \ I giordania I fu Ip- ARABIA EGITTO mar . SAUDITA \ v_ ROSSO 1

Persone citate: Aldo Rizzo, Henry Kissinger, James Reston, Kissinger