Cotelli il buono di Edgarda Ferri

Cotelli il buono Amico-maestro di Gustavo Thoeni Cotelli il buono Con gli azzurri ha vinto cinque Coppe del Mondo - Nervoso e fiducioso prima della gara decisiva, estroverso e felice dopo il successo Ora pensa alla laurea in Economia clic non ha mai potuto prendere (Nostro servizio particolare) Ortisei, 25 marzo. Mario Cotelli ha la testa rotonda. Da qualsiasi parte si osservi, è sempre rotonda oltre che rossa. Mezz'ora prima dell'inizio delle gare per la Coppa del Mondo, la sua testa pareva un grosso pomodoro maturo. La pelle, tesa e lucida, prendeva bagliori fiammeggianti dai capelli color cannella. Gli occhi erano striati di sangue. Le labbra gonfie parevano sul punto di scoppiare. Ignoro quanto sia alto Cotelli. In ogni caso, da l'impressione di essere gigantesco. Ha poco più di 30 anni e l'aspetto di un eroe del Far West, genere pugno facile e parola torte, però cuore buono. Prima delle gare Cotelli era entrato nel recinto, a trecento metri dallo striscione del traguardo, con passo di guerra. Era vestito di verde e di rosso e teneva legata al collo una radio trasmittente con l'antenna innestata. Sul ghiaccio duro lasciava orme di piedi rabbiosi. Cotelli masticò una sigaretta e guardò su in alto, dove la neve cadeva tormentone grigiofumo e dov'erano ancora sbarrati i cancelletti rossi della partenza. Alcuni atleti provavano sulle due piste: si vedevano grandi come pulcini. «Ecco Gustavo», disse Cotelli. Con i suoi grossi occhi miopi, protetti da lenti spesse e rotonde, aveva individuato il ragazzo che stava termo in mezzo a una porta con la tuta grigiolina, incolore. Pareva un leone in gabbia separato com'era, e per forza, dai suoi sette ragazzi. Il suo cuore balzava ancora prima degli occhi roventi su e giù, dalla partenza all'arrivo, mentre il rosso del volto diventava paonazzo. Parlava con tutti, ma distrattamente. A metà della gara, quando Bachleda, cadendo, rimise Stenmark in sella, lanciò nell'aria l'urlo dell'Achille furente. La sua voce tuonava nella radio senza neppure aspettare risposta. I passi erano adesso unghiate lunghe sul ghiaccio. Attraversò il recinto a ritmo di carica per andare a protestare sulla riammissione dello svedese, secondo lui e non soltanto secondo lui, uscito di porta e rientrato da una finestra che risultava quanto mal stravagante. Dritto e deciso, sembrava pronto a sfidare il mondo intero: ma tornò a testa china ed accettò, anzi riconobbe, il verdet¬ to della giuria. Da quel momento, la sua tensione divenne paura. Che dirgli, in momenti cosi? Lo rassicurava parlare di Thoeni. Era la sua creatura, il suo prodotto migliore. Cinque anni fa, quando aveva preso in mano la nazionale azzurra, Thoeni era un ragazzo che prometteva moltissimo. Ma era in quell'età in cui tutto poteva influire su di un ragazzo dillicile come Gustavo «Ho capito — disse - ci.e c'era una sola maniera per agganciarlo. Bisognava stimolarlo nel suo amor proprio, magari anche colpirlo duramente nel centro del suo grandissimo orgoglio ». Intanto arrivavano buone notizie. Thoeni, ci facevano sapere, arroccalo nel nido lontano della stazione di partenza, non aveva neppure chiesto perché la gara era stala sospesa per quasi un'ora. Thoeni, dicevano, era concentrato al massimo e non aveva cambiato di un solo millimetro l'espressione del volto, che era ancora quella delle sette del mattino quando era uscito ad allenarsi. «Bene — disse Colelli —: se rimane in concentrazione, siamo salvi. Perché Gustavo sa fare miracoli con la sua volontà. Se non cede, la Coppa è nelle sue mani «. Non ha ceduto la mostruosa volontà del ragazzo, ma nel preciso momento in cui superò II traguardo per l'ultima volta, Cotelli si abbandonò ad un pianto spettacoloso. Piangeva piegato in due come se l'avessero colpito al ventre, e all'inizio pareva disperazione. Un bottiglione di champagne lo innondò dalla testa ai piedi e allora, finalmente, il singhiozzante gigantesco relitto si mise a ridere e incominciò a leccarsi la faccia. Più tardi aveva addosso odore di vino e, intorno agli occhi, I roventi cristalli del pianto gelato. Mangiava svogliatamente Ira un paio di amici e la moglie, con Thoeni cinque tavolini più in là, il generoso Radici, De Chiesa, Gros e Pietrogiovanna che divoravano bistecche alle sue spalle, «Thoeni — disse Cotelli — è uno che non bisogna disturbare, lo lo vedo una volta la settimana e non gli dico mai più di due o tre parole. A lui bastano. Bisogna saperlo prendere, io mi sono adeguato, lo sono estroverso e lombardo quanto lui è chiuso e montanaro. Bisogna parlare poco con lui, e parlare giusto. Non perdona niente a se stesso, ma non perdona niente neanche agli altri». Mentre parlava di lui, da lontano lo covava con gli occhi. I! fiabesco campione mangiava composto in silenzio, con la medesima faccia di sei ore prima quando aveva iniziato la gara, e di un'ora soltanto prima, quando la Coppa era stata messa nelle sue mani con la solennità con cui si mette sul capo di un re la corona. «Gustavo è un ragazzo sensibile — sottolineò —, molto sensibile». E con questo anche lui voleva aiutarci a sfatare la leggenda di un mostro meccanico con un paio di sci al posto del cuore. Lo champagne cominciò a girare e una coppa arrivò Ira le mani di Cotelli. Gustele. chiamò Cotellli senza forzare la voce. Allora, nel blaterare confuso della sala, attraverso le teste e le mani che girandolavano. Gustavo senti anche se era lontano. Alzò gli occhi e II bicchiere, e fra i due corse qualcosa che tutti sentirono e che tutti soffrirono. Reciprocamente, senza effusioni, cosi come si addice a veri sportivi della montagna, Thoeni e Cotelli si ringraziavano. Cotelli era rosso quanto Thoeni era pallido. Cotelli era gonfio quanto Thoeni era teso. Cotelli era un tamburo che ancora per molto avrebbe vibrato per i colpi dello spettacolo dato. Thoeni era un violino muto: il concerto era finito e lui non anelava ad altro che tornare nel fodero. « lo mi divertivo — disse Cotelli —, è un lavoro che mi diverte, e per questo non oso neppure chiamarlo lavoro. Mi piace occuparmi di questi ragazzi, saperli nelle mie mani». // faccione rubicondo guizzò di sorrisi. «Oh Dio — precisò —, oggi, per la verità non mi sono divertito per niente. Oggi ho sofferto più di quanto non abbia sofferto per le altre quattro Coppe del Mondo messe insieme ». DI nuovo, da lontano. Gustavo alzò la testa e con gli occhi disse che, si, era vero. «Lui sente, lui vede, lui registra tutto», disse Co tei li con ammirazione. Adesso parlava il dialetto della Valtellina, ancora beveva, ma ancora non riusciva a mandar giù un solo boccone, «lo — confidò — per fa re questo mestiere ho piantato l'università, economia e commercio, quando fare un esame voleva dire ancora studiare molto sul serio. E' stato quando mi han dato in mano gli azzurri e quando, già nel primo anno, quel ragazzo m'ha portato a casa la Coppa del Mondo: la prima per me e la pri ma per lui». Sua moglie, una radiosa e disincantata signora, s'inIlio nel discorso. «Però adesso — gli disse — dovresti deciderti a prendere la laurea». Cotelli rispose di si. che torse era ora. «Perché io sono uno che può anche stancarsi e voler fare qualcosa di nuovo», informò. Co sicché, per quei giochi abbastanza straordinari e magnetici che s.' creano in determinate occasioni. Cotelli era arrivato a ficcarsi da solo nel cuore il tarlo che dall'altra parte della stanza, con più o /nello sgraziate parole, già in tanti stavano infilzando nel cuore di Thoeni. Era il tarlo del «dopo», j Questa brutta, inquietante parola j che vuol dire che qualcosa è lini- \ to, che si la punto a capo, e che j quello che è stato non può essere | più. «Ma cinque sono tante — disse Cotelli —. A questo punto, ci si potrebbe anche accontentare». Allargò la mano sulla tovaglia battendo una per una le dita. «Cinque — ripetè —. Ma questa è sta ta la più sofferta di tutte». Ebbe un moto di impazienza. Guardava la coppa che Thoeni teneva davanti, vuota e lucente, «lo la riempirei di vino — gorgogliò — e poi la vuoterei tutta in un fiato». // tamburo seguiterà a vibrare, cosi come è umano e normale. Quanto al violino, era già per tornare nel fodero di Trafoi. «Alla sua musica — disse Cotelli con le lacrime agli occhi —. Oh. la sua musica: resterà per molto tempo intorno a noi. e per molto tempo ci lascerà stupefatti, felici». Edgarda Ferri

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