Perchè la corte di appello ha assolto i clinici con la formula che dice: il fatto non sussiste

Perchè la corte di appello ha assolto i clinici con la formula che dice: il fatto non sussiste Spiegazione (in 162 pagine dattiloscritte) di un peculato che non ci fu Perchè la corte di appello ha assolto i clinici con la formula che dice: il fatto non sussiste Il tribunale aveva prosciolto la maggioranza degli imputati sostenendo che avevano agito in buona fede - I giudici d'appello sono andati più in là: Dogliotti, Brunetti, Midana, Roccia fecero bene a trattenersi i soldi per le cure ai ricoverati nei loro istituti - In realtà le cliniche universitarie sono ormai equiparate a veri e propri reparti ospedalieri In 162 pagine dattiloscritte, i giudici della seconda sezione della corte d'appello (relatore dott. nitrati), spiegano i motivi per cui. la vigilia di Natale dell'anno scorso, hanno assolto con la formula « il fatto non sussiste » gli ultimi quattro clinici ancora coinvolti nella clamorosa inchiesta di quattro anni or sono. Come si ricorderà, accusati di peculato per appropriazione in danno dell'Ateneo e dell'ospedale S. Giovanni, il lior fiore dei clinici torinesi furono rinviati a giudizio per rispondere di essersi messi In tasca. Indebitamente, un miliardo e mezzo e giudicati dal tribunale nel dicembre '73. 1 giudici ne condannarono quattro (Giulio Cesare Dogliotti. Bernardo Roccia. Faustino Brunetti e Alberto Midana) con pene varianti da 3 anni e 11 mesi a 4 anni e 8 mesi, e mandarono assolti tutti gli altri con varie formule. La principale fu: « 11 fatto non costituisce reato per mancanza di dolo ». In sostanza il tribunale ragionò cosi: il peculato c'è per tutti. L'art. 49 del Testo unico sull'Istruzione superiore (che tratta delle prestazioni di natura universitaria) è legge primaria. I i clinici che hanno partecipato alla ' stesura della convenzione '51, sui rapporti tra clinica, ospedale e re-spedale. Coloro che hanno preso parte a quel consiglio dei clinici (Dogliotti, Brunetti, Mida- Roccia) devono essere co-n dannati. Gli altri, che vennero dopo e seguirono la prassi instaurata dai « maestri », hanno peculato, sì, ma in buona fede, senza dolo. Per questo devono essere assolti. La certe d'appello è andata oltre, ha buttato a mare l'art. 49, perché non conta più nulla, risa- : le al '33 ed è previsto per una ' situazione che, col tempo, è ra- — Università, non potevano igno- rare che i soldi andavano versati in parte all'Ateneo e in parte al- dicalmente mutata. La clinica, infatti, sorta come istituto di ricerca e di studio sugli ammalati, si è trasformata a poco a poco In reparto ospedaliero di cura e assistenza. Motivo: l'aumento della popolazione e l'avvento delle mutue hanno riversato un numero eccezionale di malati negli ospedali i quali non riuscendo ad accoglierli tutti, hanno chiesto aiuto alle cliniche, i cui direttori sono diventati « primari ospedalieri », a tutti gli effetti. Cosa c'entra, allora, l'Università? I clinici hanno trattenuto quelle somme, e le hanno divise con i loro assistenti, perché erano di loro spettanza. Il peculato non sussiste. La sentenza della corte (pres. Germano, giudici Mortarino, Cibrario, Buraggi e Sacchi) fa presenti alcuni punti tecnici. Primo: « I proventi di cui si discute rappresentavano non già degli "utili di esercizio" derivanti da una gestione delle cliniche ospedalizzate, (cioè "prodotti aziendali" a cui avrebbero potuto aspirare soltanto gli eìitì ai quali le cliniche facevano capo o coloro ai quali tosse stato riconosciuto uno specifico diritto di partecipazione ai relativi guadagni) ma semplicemente delle "porzioni di ricavi lordi" conseguenti allo svolgimento di attività che, potevano, nei rapporti interni all'organizza Stane che le produceva essere ri | nazione». i I collegate in parte ad uno ed in I Parte ad "n altr° !ra 1 singoli fattori che avevano, in concreto, concorso a consentirne la realiz- Secondo: « Tali proventi erano, in senso proporzionale, esattamente corrispondenti a ciò che le amministrazioni ospedaliere erogavano, a favore dei primari da loro assjinti e dei medici sottoposti alla loro autorità a titolo di retribuzione netta dell'opera professionale prestata nei reparti ospedalieri. Ovvero al solo ammontare id ciò che (dopo la trattenuta di quanto ricollegabile con i costi dell'organizzazione entro cui ì sanitari operavano) residuava dall'importo delle somme versate, quale mero corrispettivo dell'assistenza, dagli utenti dei servizi sanitari realizzati nei reparti». Terzo: « Nelle cliniche ospedalizzate i direttori dei rispettivi istituti scientifici universitari prestavano, direttamente o con l'ausilio dei medici loro sottoposti. "la stessa" opera professionale di assistenza e cura che nel reparti ospedalieri veniva analogamente prestata dai primari ». Quarto: « I direttori di questi istituti universitari non fruivano, peraltro, in dipendenza di quella prestazione di opera professionale, degli stipendi fissi, sia pur modesti, che, sempre per tale opera, venivano invece percepiti dai primari ospedalieri, in aggiunta alla retribuzione di cui sopra». Quinto: « Il fatto che i direttori ! degli istituti scientifici universitari avvalendosi di "cliniche ospedalizzate" potessero, indipendentemente da loro eventuali attività private, percepire delle reI trib..zioni complessivamente mag| glori sia di quelle percepite dai docenti universitari non ricoprenti la carica di direttore di simili istituti, sia di quelle dei sanitari esercitanti soltanto le funzioni di primario ospedaliero, sarebbe stato, almeno di per sé, coerente non solo con generici criteri di logica e di giustizia, ma anche con quanto sancito dal primo comma dell'art. 311 della Costituzione. Questo dato che il concomitante soddisfacimento (da parte di un medesimo soggetto) di esigenze sanitarie di assistenza agli ammalati e di esigenze scientifiche e didattiche comporta duplice impegno, duplici preoccupazioni, duplici responsabilità, anche se realizzato con un'unica attività materiale ». Sesto: « Il fatto che gli imputati svolgessero costantemente, in concomitanza con le attività scientifiche e didattiche loro incombenti quali docenti universitari, anche un'attività professionale di carattere medico, non solo non era incompatibile con il loro stato giuridico di persone legate all'Università da uno stabile e continuativo rapporto di impiego, ma ! 'e'ra~r~es~o inevitabile dalle mansio- ni dì direttore di istituti scientifici avvalentisi di cliniche ospe- ; dalizzate, loro conferite dalla stes j sa Università ». i Settimo: « Anche se ragioni non lllKlIlàillllilllMllll UHM Illlllllllltl derivanti dagli articoli 132 e 4'J imponessero di affermare l'effetti- va sussistenza dell'obbligo di ver- | samento alla cassa universitaria qui attribuito dall'accusa ai direttori degli istituti scientifici, dovrebbe pur sempre ritenersi quanto meno dubbio, se non addirittura da escludere che, dopo quanto detto finora, gli enti universitari fossero legittimati a non destinare integralmente le somme in contestazione a compenso dell'opera professionale di assistenza e di cura di malati prestata nelle cliniche ospedalizzate dai direttori medesimi e dai medici sottoposti alla loro autorità ». Dimostrata così l'assoluta estraneità della clinica dall'Ateneo e dall'Ospedale la sentenza conclude che « l'accusa è del tutto insostenibile da qualsiasi punto di vi¬ sta, poiché non è ravvisabile alcuna valida ragione per ritenere lle le somme dovessero essere versate dagli imputati alla cassa universitaria, ma sussìstono, invece, insuperabili argomenti atti a dimostrare il contrario, e cioè che tali somme ben potevano essere integralmente trattenute dagli imputati, per sé e per i medici sottoposti alla loro autorità, sicco me di loro esclusiva apparlenen sa, anziché dì appartenenza dell'Università di Torino, già nel momento stesso In cui pervenivano agli istituti scientifici universitari da essi diretti. « Non c'è dubbio che tali somme rientravano fra quelle che ciascun imputato aveva diritto di percepire dal competente ente ospedaliero, poiché esse costituì- vano, nel sistema buono o cattivo ì che fosse e nel quale ogni medico si trovava inserito, null'altro che la "retribuzione netta" a lui direttamente spettante nei confronti di tali enti, in relazione anche al proprio obbligo di retribuire il personale medico a lui sottoposto e da lui utilizzabile a norma dell'articolo 2232 del codice civile, per l'opera professionale sanitaria di assistenza e cura dì ammalati da lui materialmente prestata, con attività strettamente ed esclusivamente propria e con l'ausilio di tale personale medico, nella clinica ospedalizzata di cui si avvaleva l'istituto scientifico universitario da lui di retto. « In simile opera professionale non potevano poi non risultare comprese tutte le attività sanitarie di assistenza e cura comunque svolte, sia a favore di pazienti degenti, sia a favore di pazienti ambulanti, presso gli istituti scientifici universitari (e quindi anche quelle di scintigrafia e captazione) dal momento che soltanto le prestazioni non avvantaggianti persone realmente o ipoteticamente malate potevano risultare attribuibili a tali istituti, piuttosto che alle cliniche ospedalizzate in essi operanti. Considerata la concidenza tra la sede di questi e di quelle e il fatto che qualsiasi prestazione, anche di carattere solo diagnostico, a favore di reali o ipotetici ammalati, comporta necessariamente l'utilizzazione tanto di mezzi materiali, quanto di attività assistenziale di natura medica, cioè proprio di quell'attività a cui le cliniche ospedalizzate medesime erano addette. Dogliotti, Roccia, Brunetti e Midana devono essere assolti perché le appropriazioni di pubblico denaro appartenente all'Università di Torino di cui essi sono stati accusati non sussistono ». La sentenza è stata depositata in questi giorni. Il sostituto procuratore generale, dott. Buscaglino, ha tempo un mese, dal giorno in cui gli verrà notificata, per fare ricorso in Cassazione. . Sergio Ronchetti I giudici: Germano (presidente), Buraggi e Buscaglino

Luoghi citati: Quarto, Sesto