I DELITTI DI GILLES DE RAIS

I DELITTI DI GILLES DE RAIS PERCHÉ L'INSUCCESSO DI KISSINGER IN MEDIO ORDENTE 77 realista battuto dai fatti Lasciando Tel Aviv, aveva un'ombra di pianto nella voce e negli occhi - Il teorico del freddo calcolo politico scopriva all'improvviso certe cose che non entravano nei suoi geniali alambicchi: il desiderio di sopravvivenza, i rifiuti ostinati Dicono le cronache che Henry Kissinger, partendo domenica dall'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, avesse un'ombra di pianto nella voce e negli occhi, mentre annunciava l'insuccesso della sua ultima spola diplomatica. Il commento era facile e immediato: dunque, anche Metternich ha un cuore, tinche «Superman» conosce delusioni e sconfitte. Del resto, non è la prima volta che il cronista scorge, o crede di scorgere, una lacrima bagnare le ciglia del segretario di Stato americano, così incline al sorriso trionfale. Accadde anche a Salisburgo, quando l'onda dello scandalo Watergate — che ormai sommergeva il presidente Nixon — rischiò di raggiungere lo stesso Kissinger, accusato dalla stampa americana di aver partecipato al complotto. L'uomo si difese con accanita passione, giunse ad offrire il proprio ritiro dalla vita politica, e le gote gli si rigarono di pianto. Dalle lacrime di Salisburgo a quelle di Tel Aviv: torna alla mente un giudizio ingeneroso che proprio Richard Nixon, ormai esule dalla Casa Bianca, offrì agli storici, parlando con distacco dell'uomo che pure aveva costruito pietra su pietra il suo piedestallo di statista: Kissinger, aveva detto Nixon, è un uomo emotivamente instabile, che ha bisogno di avere alle spalle una mano ferma, una guida sicura. Il sottinteso era: cosa potrà fare senza di me? Molti motivi umani ed ambientali possono spiegare la commozione di Kissinger in Israele: senso di impotenza, dispetto per lo sforzo sprecato, preoccupazione autentica per la sorte degli uomini che lo circondavano. Non c'è bisogno di ricorrere al ritratto psicologico tracciato, con sottile perfidia, da Nixon. Né si deve insistere sulla constatazione che Kissinger sembra sensibile solo agli eventi che oscurano la sua immagine pubblica. E forse neppure disseppellire le radici del suo sentimentalismo mitteleuropeo. Ma certo quello di domenica e un Kissinger in un certo senso inedito e inatteso. L'inventore di una strategia diplomatica globale, il teorico del freddo calcolo politico, lo studioso di un equilibrio di forze che esclude le passioni, prevede i con- flitti locali e si fonda solo Isulla potenza e sulle convenzioni che la frenano, scopre all'improvviso che vi sono realtà che non entrano nei suoi geniali alambicchi. Paradossalmente, le sue lacrime all'aeroporto non possono che essere lacrime «ideologiche»: nella sua ossessione per la Realpolitik e per i teoremi diplomatici, Kissinger aveva forse dimenticato di raggiungere il realismo estremo, che è quello di riconoscere l'esistenza delle ideologie, delle diversità nazionali, degli orgogli locali. Le linee del piano sono più lunghe del foglio del pianificatore, le guerre limitate scuotono il mondo, il disegno non è perfetto come la teoria. Si può dire ormai che la parabola di Henry Kissinger I si stia compiendo in modo esemplare e che una certa idea kissingeriana del mondo abbia impiegato pochi anni a consumarsi. Il professore di Harvard, studioso di storia, di strategia psicologica, di Machiavelli, di Metternich e di Bìsmarck, che nei libri teorizzava la necessità «di manipolare gli eventi per non restarne prigionieri», aveva avuto per quasi cinque anni — dal 1969 alla fine del 1973 — l'opportunità grandiosa di applicare i precetti desunti dai suoi studi storici. Era stato il suo «periodo romantico»: una carica non gerarchica, un ristretto numero di collaboratori, una segretezza proverbiale, gli avevano permesso non già di inventare una nuova diplomazia, ma di collaudare le sue ipotesi generali. Il calcolo, la cautela, la debole presidenza che aveva alle spalle, il mandato assoluto, avevano coinciso con un fortunato momento storico: l'incontro con la Cina era già maturo, la distensione con l'Unione Sovietica era nell'aria da anni, la guerra nel Vietnam era già esecrata dalla coscienza americana. E tuttavìa, queste svolte diplomatiche avevano trovato un ritratto proprio nella figura di Kissinger seduto sulla bianca poltrona accanto a Mao, accomunato a Le Due Tho nel Premio Nobel per la pace, trasvolatore infaticabile, abilissimo nel sorvolare anche le differenze ideologiche, nello sfruttare timori e ostilità dei partners, nel trasformare una politica estera dominata dal moralismo e dall'ottimismo in una meticolosa formula scientifica di convivenza. Mai, neppure nei momenti di più vistosa popolarità, Kissinger ha smesso di essere definito, anche dai suoi più assidui frequentatori, come un «personaggio enigmatico». Ci si domandava se vi fosse, dietro quella sua energia, qualcosa di più d'un'ambtzìone personale, il desiderio di collaudare un'ipotesi. o forse addirittura un'idea del mondo. Certo, errori ne aveva commessi molti anche lui, alcuni gravi, altri veniali. La sua sfiducia nei trattati aveva fatto nascere documenti inattuabili, e paci instabili. Ultimo diplomatico di stampo ottocentesco, Kissinger si muoveva bene nelle cancellerie, ma sembrava ignorare che il mondo non somiglia più al Congresso di Vienna. Giocatore di scacchi nella sua casa di Rock Creek Park a Washington, dava troppa importanza a re e regina, trascurando il gioco dei pedoni e degli alfieri. E intanto, accanto ad una pungente ironia che non risparmiava il suo stesso personaggio, Kissinger allineava errori inspiegabili. Come quando, il 26 ottobre del 1972, se ne uscì con una frase che doveva diventare celebre per imprudente ottimismo: «La pace è a portata di mano», disse quel giorno riferendosi al Vietnam, dove seguirono invece mesi di guerra fra i più sanguinosi O quando, unico errore mondano in una carriera sociale calcolatissima, si lasciò intervistare da una abrasiva giornalista italiana, alla quale consegnò un autoritratto sentimentale ed ingenuo: lui stesso, Henry Kissinger, come un cow-boy che se ne va in città tutto solo sul suo cavallo, e agisce in nome del diritto. Da allora, e dopo le tempestose reazioni della Casa Bianca, Kissinger non ha mai più rilasciato interviste che non fossero strettamente politiche. Era inevitabile che il periodo romantico finisse, e che la logica stessa del potere catturasse Kissinger. Nel settembre del 1973, un Nixon già assediato dallo scandalo lo volle come segretario di Stato. I giorni del cow-boy solitario erano davvero finiti. Ora c'era uno staff di 12 mila dipendenti, l'odiata burocrazia da guidare, gli impegni ufficiali, la responsabilità davanti al Congresso, Da fine delle missioni clandesti- ne. Era un onore altissimo (la sedia di Jefferson e di Webster), ma anche un rischio. Pochi dei suoi predecessori avevano lasciato un segno politico, né Rusk, né Rogers, né lo stesso Dulles. Il perfezionismo teorico cominciava a scontrarsi con la grigia realtà. Niente più geniali consulenze, viaggi in città proibite, storici incontri segreti. Kissinger seppe adattarsi, per un po' parve trasformare il suo ruolo più di quanto il suo ruolo cambiasse lui; la tregua del Kippur e le missioni in Medio Oriente parvero conservare ancora l'antica impronta. Gli umoristi politici potevano ancora disegnare una vignetta come quella che mostra l'arrivo dell'aereo presidenziale, Nixon e Kissinger sulla scaletta, e un testimone che chiede: «Chi è l'uomo accanto a Kissinger?». E tuttavia i tempi cambiavano in fretta. Annoiato dai problemi economici, Kissinger si trovò al centro di un mondo in cui inflazione e crisi petrolifera erano i veri avversari, senza le feluche dei diplomatici. Più bravo con i nemici che con gli amici, Kissinger riuscì ad acuire le divergenze con l'Europa. L'intellettualismo della sua azione politica, la freddezza delle sue geometrie mondiali, cominciarono a rivelarsi. Il secondo periodo presidenziale dell'uomo che lo aveva chiamato al potere naufragò nello scandalo Watergate. In Vietnam si riaccese la guerra, dimostrando quanto fossero impraticabili sul terreno gli accordi di carta firmati a Parigi. Ed ora, anche intorno al Sinai e al Canale di Suez, Kissinger deve registrare un fallimento. Il mondo è più complicato dei libri di storia, nazioni inquiete, minoranze ribelli, catastrofi economiche, guerriglie, relazioni logorate, sceicchi onnipotenti. Adesso, la pace difficile nel Sud-Est asiatico, la rimonta della diplomazia sovietica, le nuvole di guerra in Medio Oriente. Kissinger il teorico, lo scienziato della diplomazia, nemico delle guerre non in nome del pacifismo o della giustizia internazionale ma in nome dell'arte della politica di potenza, scopre che i precetti urtano talvolta con realtà apparentemente minuscole e trascurabili, ma testarde: il prestigio, il desiderio di sopravvivenza, il pregiudizio, la volontà di pochi, le resistenze ostinate. E' una «Realpolitik» minore, ma non meno invincibile. A un anno e mezzo dalla fine dell'epoca romantica, con la più grande macchina di potere del mondo al suo servizio, Kissinger raccoglie delusioni. Rimane un grande realista, ma sul viso, a guardar bene, si scopre una lacrima. Andrea Barbato Washington. Henry Kissinger nel suo abituale gesto di saluto, al tempo dei maggiori successi internazionali (Tel. Ap)