Il curriculum di Raffaele La Capria

Il curriculum RACCONTI DELLA DOMENICA: LA CAPRIA Il curriculum — Se ogni persona è un'entità cui può essere in qualsiasi momento applicato un « curriculum », anche lui, nell'età canonica tra i venticinque e i trenta, ha in mano un « curriculum », con nome, cognome, provenienza e referenze. Arrivato nella Capitale delle Apparenze con un cumulo di incertezze fatali sulla vita e su sé stesso, per cui potrebbe essere 11 o altrove allo stesso titolo, il problema da risolvere per lui, a questo punto, non è tanto quello di aprirsi una strada, quanto quello di trovare il posto adatto per coprire la sua incompatibilità verso qualsiasi possibile strada da intraprendere, di collocarsi per apparire anche lui qualcuno, giustificando e mimetizzando cosi la propria fondamentale inconsistenza. Mi pare che vada presentato così il personaggio di cui si tratta. O mi sbaglio? — Veramente il suo problema non sarebbe solo quello di apparire, ma di trovare un certo modo di partecipare mantenendo le distanze. — E le equidistanze. —• Sì, certo, anche quelle. — Metti che quel cumulo d'incertezze fatali sia diventato in lui come una seconda coscienza di sé, una coscienza separata ed appunto equidistante, che l'insegue come un pedinatore per riportarlo nel vicolo cieco della non appartenenza, alla già sperimentata e ricorrente condizione estrema delle spalle al muro. Lui vuole sfuggire a tutto questo, ed ecco perché, brandendo il « curriculum » che lo certifica e in qualche modo lo abilita, entra nel grande edificio di vetro e acciaio, con soffitto di alluminio e pavimenti di marmo nero, un po' funebre, ma solido e razionale. — Scusa, dev'essere proprio così simbolico? — Cos'è simbolico? — La Capitale delle Apparenze, il « curriculum », il pedinatore, e poi un edificio di vetro e acciaio col soffitto di alluminio... Andiamo! — Perché, non sono questi gli edifici in cui entrano loro? — Loro chi? — Tutti quelli che funzionano nella Capitale delle Apparenze, i funzionari funzionanti o no, quelli che trasformano la finzione nella funzione. Lui li vede come un popolo straniero di cui ignora linguaggio e costumi, e li osserva. Camminano come se sapessero dove sono diretti, come se avessero davvero qualcosa da fare, come se perseguissero un fine. Li osserva e li invidia: vorrebbe sapere anche lui dove va, vorrebbe avere davvero qualcosa da fare, perseguire un fine. Così, intruppato in mezzo a loro, anche lui s'infila nell'edificio. Finiscono tutti lì o in edifici del genere, in un Ente insomma. E sai perché? — Perché solo l'Ente gli dà l'id-Enti-tà, purché s'identifichino. Naturalmente quando trattasi d'Ente Inutile, basta identinutilificarsi. — Soggiaci sempre all'allitterazione schizoide, eh? Questo mi conferma nell'idea che anche tu potresti essere, come me, il personaggio del racconto che stiamo improvvisando. Comunque l'essenziale l'hai capito, mi pare. —■ Certo: S'infila come loro nell'Ente tutto liscio di acciaio vetro ed alluminio, sale nere scale gommate perché non osa ancora servirsi dell'ascensore, percorre grigi corridoi che s'incrociano con altri corridoi in una fuga continua di prospettive rettilinee, e già sente che il suo pedinatore è lontano, già sente di avere il passo di uno di loro. Dico bene? — Conosco quel passo. E' il passo di chi è stato chiamato, di chi è diretto in direzione, di chi ha una parte o pratica da svolgere, il frettoloso passo zelante degli sfaccendati che si fingono indaffarati e si danno attorno per sembrarlo. Chi cammina così, chiuso nella magica sfera del proprio fare quotidiano, recitando lo spettacolo dell'attività ed impegnato a sublimarlo, ha ben altro per la testa che occuparsi di un individuo superfluo nel posto superfluo. — Alludi a lui? — Proprio a lui, che è appena entrato ed ha già assunto il passo oliato di chi cammina come pattinando, con lo sguardo fisso del visionario, teleguidato dalla provvida provvidenza statale o para, mentre i piedi quasi a sua insaputa lo portano per i lunghi corridoi in fuga incrociata. Su ogni corridoio s'affacciano porte uguali di metallo, e dietro ognuna di quelle porte di metallo c'è uno di loro, istal¬ lato nella porzione d'ufficio proporzionata al grado. Una porta è aperta e svela un parallelepipedo... — Un che? —■ Un parallelepipedo, una stanza a forma di parallelepipedo, due metri per quattro, altezza tre, con una parete finestra di vetro e una scrivania di legno e metallo. E' luminosa, asettica, vuota, disponibile. Anche se priva di divani e moquettes, tendaggi quadri o piante esotiche, gli sembra che vada. Perciò entra, chiude la porta alle sue spalle, si siede alla scrivania, e così sistemato aspetta. — Cosa aspetta? — Che si accorgano di lui, che qualcuno noti che lui c'è e gli chieda di render conto della sua presenza, o gli dia atto della sua appartenenza. Ma, a causa della frantumazione delle competenze, nessuno s'accorge di lui, e così passano gli anni... — Beh, qui il nostro racconto comincia a non funzionare più, mi pare. Passano gli anni? Quanti anni? Dieci? Venti? — Fai tu. — Non regge, ti dico. —■ Come non regge? Ricordati che il racconto è ambientato nella Capitale delle Apparenze, in un Ente che ne riflette come in una lente cava il funzionamento generale. In un tipo di funzionamento che funziona solo sulle Apparenze si può funzionare benissimo creando l'apparenza di una funzione. Purché, s'intende, t'assista il privilegio di appartenere alla casta dei BuroBuro, nata col colletto bianco, e a null'altro predestinata. — D'accordo. Ma a raccontarlo sembra inverosimile. — Il vero non sempre è verosimile, lo sai. Dove niente è reale e l'unica realtà è l'Apparenza Organizzata, anche chi arriva come un'apparenza contribuisce con la sua irrealtà a rafforzare il senso che tutto, comunque, tiene. Il nostro racconto vuol far capire questo con l'evidenza del caso limite. Una volta assodato ciò, vedrai che, come sempre, le cose si metteranno a posto. — Vediamolo subito allora. Come si mettono a posto? — Intanto, per lui, per il nostro protagonista, si tratta di ripetere gli stessi gesti, le stesse parole, assumere lo stesso comportamento che hanno loro. E questo lui lo ha fatto. Sempre lo ha fatto. Ha sempre desiderato la normalità degli Altri, di conformarsi a quella. Ma la sua coscienza separata, che lo insegue come il pedinatore un ladro, lo avverte sempre della difficoltà di una completa coincidenza. Dunque si tratta di entrare nel ruolo, capisci? Di agire « come se » lui fosse quello che non è e non potrà mai essere pur desiderando diligentemente di essere. Così ha imparato meglio di tutti ad entrare in un ruolo. — Va bene, è entrato in un ruolo, e poi? Le cose non sono ancora a posto mi pare. Possono sempre accorgersi di lui e cacciarlo via dall'ufficio su due piedi. —■ Sì, sì, ma siamo vicini al Natale, e lo sai com'era allora, ai bei tempi tra il boom e prima del crack, il Natale di Rito Aziendale. Doppia mensilità agli uomini di buona volontà. Il Direttore dell'Ente, insieme col Capo del Personale, quello che tiene le fila dei « curriculum » che certificano ed abilitano, passa benigno nei corridoi, apre le porte ad una ad una, entra negli uffici, fa ad ognuno una domanda uguale: Nome, cognome, funzione. Dice parole di prammatica, stringe ritualmente la mano ad ognuno, e bussa alla porta dell'ufficio accanto. E così apre anche la porta dell'angolino morto dove lui si defila. Il Direttore, seguito dal Capo del Personale, entra, sorride impersonalmente, domanda nome, cognome, funzione. E' il momento della verità, lui non sa cosa rispondere, non sa nemmeno chi è, chi è diventato là dentro col tempo. Resta interdetto, sta per aprir bocca, per rivelare l'equivoco, il colpo di mano, l'inganno cui lui stesso ha soggiaciuto. Per fortuna interviene e lo previene il Capo del Personale, (il Demiurgo che conosce ogni « curriculum ») e premuroso dice un nome, un cognome, e la funzione: Facente Funzione, Facente Funzione di chi? Di qualcuno, naturalmente. Ma sono già usciti, e da quel giorno lui è consacrato: è l'apparenza di quel tale il cui nome è stato pronunciato dal Capo del Personale. E poi, lo sa, lui è comunque un Facente Funzione, potrebbe essere benissimo il Facente Funzione di sé stesso. — Ma allora, scusa, in tutti quegli anni lui non ha mai avuto la preoccupazione che il vero titolare di quel posto, e forse di quel nome, saltasse fuori un bel giorno, si sedesse alla sua scrivania e gli dicesse di sgombrare, di sparire così com'era apparso? — Sì, a volte il pensiero diventa angoscioso. Qualche mattina, mentre s'avvia in ufficio, gli sembra che aprendo la porta troverà un Altro al suo posto. Gli sembra che la sua vita finora è solo una tregua, una tregua concessagli dall'Altro. Quando verrà fuori l'errore? Ma poi si consola pensando che tutto ormai è in regola, che il nome pronunciato dal Capo del Personale è il suo nome, e perfino che lui è proprio lui. Nessuno, si ripete, può sapere fino a che punto la divisione del lavoro imposta dal Funzionamento Generale si riproduca nella psiche del singolo funzionante. Dopotutto il posto è buono, no? Consente anche di disfunzionare, se si vuole. Lui ci si è adattato abbastanza bene, anzi si può dire che forse lui non s'è mai mosso, ma è stato quel posto ad andare verso di lui, come « la gabbia andò in cerca dell'uccello ». Sono fatti l'uno per l'altro, lui e quel posto. — Per il momento dunque gli conviene pensare che non è un usurpatore, ma solo un Delegato a Rappresentare, un Facente Funzione: cosa del resto ufficiale ed ufficializzata. In una banca chi è delegato a riscuotere è pagato. Perché non dovrebbe essere così anche nella vita? — Dici bene, e allora lasciamo da parte la sua angoscia, e teniamo conto, piuttosto, della prescrizione. — Quale prescrizione? — Se dopo dieci vent'anni il vero titolare del posto, ammesso che ce ne sia uno, non si presenta a reclamarlo, il posto è di chi lo occupa, è suo. Si acquisisce insomma un diritto incontestabile. — Quale diritto? — Il diritto alla realizzazione dell'apparenza. Voglio dire che l'Apparenza diventa la Realtà. — Così si diventerebbe, nel caso contemplato, quelli il cui nome e la cui funzione sono stati enunciati dal Capo del Personale? — Inevitabilmente. — E come lo finiamo il racconto? — Finiamolo così: per placare la sua angoscia e la persecuzione della sua coscienza separata, con la complicità di un collega dell'Ufficio Perso¬ nale, lui fa eseguire ricerche e controlli nell'Archivio. Da tali ricerche risulta che tutto è a posto, che insomma il suo nome è quello che porta. L'unico dubbio che ancora gli rimane è di un sempre possibile caso di omonimia. Ma è un dubbio che presto sarà cancellato. Il « curriculum » che lui ha fatto cercare nell'Archivio dell'Ente è scritto di suo pugno, con la sua calligrafia. La riconosce. Non gli resta che sottoporla ad una perizia calligrafica, appena gli sarà possibile, un giorno o l'altro. In tal modo avrà la conferma che lui è irrimediabilmente lui, conforme al « curriculum », e che tutto è normale. Che la Realtà dell'Apparenza è inoppugnabile; che, anzi, la Realtà è solo un momento dell'Apparenza. Raffaele La Capria

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