Il rifiuto di Venturi di Lionello Venturi

Il rifiuto di Venturi DALLA MEMORIA Il rifiuto di Venturi Il primo incontro fu infelicissimo: c rischiò d'essere l'ultimo. Timido, ma diligente, matricolino, m'ero appollaiato al sommo della gradinata, caratteristica delle aule di allora, soprattutto le aule chic e capaci, al primo piano del Palazzo di via Po. Giunsi puntuale, nell'intervallo fra l'una e l'altra lezione: ma troppo tardi per trovar un posto che non fosse, materialmente, sulla « montagna ». Ora elegante (alle 11) e professore illustre, nonché « popolare » e alla moda. Materia (allora) altrettanto « popolare » e di moda, la storia dell'arte. Moltissimi, pertanto, gli estranei, in ispccie le signore. Continuavo pur da matricolino l'uso liceale degli « appunti ». Non sarebbe stato arduo svilupparli. Anche questo mi confortava, oltre la materia e la parola dell'insegnante, a persistere nella scelta: a seguire diligentemente, io « classicista », il corso di Lionello Venturi. Pochi minuti; poi Venturi s'interruppe netto, accennò con uno sguardo corrucciato a qualcuno sulla « montagna ». Pregò cessasse il ronzìo, o il battere, d'un lapis, il mio lapis, sul legno del banco. Era un incomodo che l'infastidiva, che gl'impediva la concentrazione d'una lezione felicemente senza appunti e rischiava di fargli perdere il filo. Non credo abbia individuato il « colpevole ». Ma ci rimasi male. Pensai seriamente a non rimetter piede nella sua aula. Eppure, quella stessa contrastata lezione mi aflascinò: e più il tema del corso. Erano gli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del Gusto dei primitivi, gli anni d'un acceso dibattito in cui erano intervenuti variamente i nostri idoli, maestri ed amici, dal Croce al giovane (più o meno dimenticato di poi, nonostante le rievocazioni di Luigi Russo e la ristampa lemonnieriana curata dal Sàntoli), il giovane, così precocemente spentosi, Domenico Pettini. Anche a scuola e fra compagni quella polemica, resa per noi più intima e cara dallo stesso intervento, semi-nazionalfascistico, di taluni « personaggi d'autorità », era un impegno pressoché quotidiano: questa rivendicazione della « classicità » contro la fastosa boria « neoclassica », contro (direttamente o indirettamen te) il gusto e lo stile del « regime », questa difesa della verità contro l'orpello e la moda. Come sottrarvisi? Com'era, quindi, pensabile di non seguire un corso che ci toccava tanto da presso? Restai, continuai diligente, sempre appollaiato sulla montagna, senza neppur cercare di farmi vedere o conoscere da Lionello Venturi. E n'ebbi, poco dopo, il mio premio. Una mattina ci convocò, per la prima d'una serie di visite fra metodiche e tecniche, alla Pinacoteca, nel Palazzo dell'Accademia delle Scienze. E quel giorno illustrò il Tobia del Pollaiolo. * ★ Dopo quasi mezzo secolo, sento e rivivo ancora il brivido della rivelazione. Avevo già visitato non pochi musei, anche il Louvre. Sapevo, credo, qualcosa: e, non soltanto per l'amicizia con Matteo Marangoni sapevo, più o meno, « come si guarda un quadro ». Ma con Lionello Venturi era tutt'altro. Quel descrizionismo insistente, troppo minuto e parecchio dolciastro od entusiastico (a freddo), che rendeva per me sostanzialmente illeggibili tante pagine dei nostri storici dell'arte, a cominciar dallo stesso Adolfo Venturi, cedeva, qui, dinanzi ad una concretezza di analisi «storiografica », ad una « centralità » interpretativa, cui conferivano bensì i singoli elementi tecnici, filologici ed csegetici, ma in nessuno dei quali l'interpretazione si esauriva o prevaricava. Gli sdilinquimenti per i colori o le forme o gli sfondi scomparivano dinanzi al proposito d'individuare un'opera d'arte, la testimonianza della creazione di uno spirito che ricerca nei particolari e nei mezzi tecnici appunto i modi e gli strumenti a significar per linee e colori un'esperienza spirituale, una sua propria storicità. Per questo soprattutto, per questo dono perpetuo d'un metodo d'interpretazione e di godimento non estetistico, ma storico-critico, dell'opera d'arte {in r.ie tanto poco scolasticamente « interessato », che presto rinunziai persino a far l'esame con lui, benché avessimo concordato insieme una ricerca, se la memoria non mi falla, sul Caravaggio), sentii subito ammirata durevole gra¬ titudine per Lionello Venturi: quasi dimenticando, e certo prima di rammentare o di valutare, i suoi meriti d'intellettuale e di antifascista. Che non erano pochi già allora, e divennero assai maggiori di poi. Era stato, né solo per la munificenza e la costituita e « raccontata » quadreria di Guali no, o per i contatti amichevoli con gli artisti locali, dal Casorati allora « lanciato » a Carlo Levi allora ai suoi inizii. fra i promotori (col Gualino, appunto, e il maestro Vittorio Gui, « riscopritore » di Mozart e della Cenerentola rossiniana) di queWessor internazionalistico nella Torino degli Anni Venti, ch'ebbe parzialmente il suo organo nel culturalismo gobettiano e post-gobettiano del Baratti e la sua sede indimenticabile nel Teatro di Torino, dove danzarono i Sakarov e recitarono i Pitoéff. Breve stagione, già condannata perché, almeno potenzialmente, « anti-regime », ancor prima del crollo, fra politico e finanziario, delle fortune del Gualino. E senza successori o resurrezioni, pur nel clima della restaurata « libertà ». ★ ★ Ed uomo di « libertà », perché uomo di cultura, e consapevole dell'inscindibile diadi unitaria di cultura e libertà, era Lionello Venturi: come attestò, non senza sorpresa di quanti lo ritenevano sostan zialmente « a-politico », il suo rifiuto di giuramento fascista da professore nel 1931 e da accademico torinese nel '34. Quando si era già espatriato e aveva preso contatto a Parigi con i « fuorusciti » e il movi mento di Giustizia e Libertà, ch'ebbe fra i proprii militanti più impegnati suo figlio Franco e il suo collaboratore e amico Aldo Garosci. Per un bisogno comune di umanità e di cultura, fu, a Parigi, soprattutto legato con i Rosselli ed i Nitti e respirò anch'egli l'alta e rarefatta atmosfera dell'una e dell'altra casa: fino al giorno terribile dell'assassinio. La morte di Carlo Rosselli ferì Venturi non pur nei suoi più intimi affetti domestici, quasi alla vigilia delle nozze (di cui Carlo doveva essere testimone) di sua figlia Rosabianca con l'editore ginevrino, e tosto internazionalmente celebre, Albert Skira, ma nel suo sentire umano e politico, dinanzi ad una tragedia che un'altra ne preannunziava e maggiore. Dettò quindi, subito, quand'erano probabili ma tuttavia non provate, e da non pochi negate, le origini « fasciste » del crimine, un messaggio, tosto firmato dai rappresentanti più autorevoli delViiiteUigcnciju europea, e cui diede un titolo di lui, Venturi, davvero tipico ed emblematico: Invoeation à l'Homme. Vi si leggeva, tra l'altro, questa frase d'immediata, di profetico-storica, verità: « L'assassinio di Matteotti segnò la fine della libertà in Italia. Non vogliamo che l'assassinio di Carlo e Nello Rosselli segni la fine della libertà in Europa... ». Lo sperimentammo nel nostro prossimo incontro, che fu a Ginevra, i giorni di Monaco: un'oasi elvetica di tanto maggior pace e di tanto maggiore speranza, in quanto ci s'incontrò, casualmente, in biblioteca, quasi per evadere col lavoro da un'atmosfera ormai irrespirabile, disumana. E rare furono le occasioni successive di rivedersi, egli in America dall'estate del '39, noi nell'InI ghilterra combattente, assediaI ta — e vittoriosa. Rare, altresì, ! dopo il rimpatrio, il suo traI sferimento alla cattedra ch'era j stata di suo Padre, in Roma. I Ricordo tuttavia con com| mozione come solesse trattarmi e presentarmi da suo « diI scepolo » (che di fatto non ! ero stato). Eppure, se è discepolo chi da un Maestro impara, e gli si serba (criticamente o liberamente) fedele, discepolo suo ben posso dirmi, con qualche orgoglio: e l'avverto ogni qual volta entro in un museo, guardo un quadro e mi par di essere ancora il matricolino torinese dinanzi a Lui — e al Tobia del Pollaiolo. Come quel giorno in Londra, alla National Gallery. Mi avevano pregato di accompagnare una ragazzina, venuta in vacanza dal natio Leicestershire, forse per la prima volta. Certo era la prima volta che visitava, o voleva visitar, con impegno la National Gallery. E fu una esperienza grossa, per lei e per me. Soprattutto per me, in cui crescevano la melanconia e la tristezza quanto più crescevano in lei l'interesse, l'attenzione, l'entusiasmo. Quella melanconia e quella tristezza erano il mio tributo di gratitudine alla memoria di Lionello Venturi. Piero Treves

Luoghi citati: America, Europa, Ginevra, Italia, Londra, Monaco, Parigi, Roma