La tragedia indocinese

La tragedia indocinese La tragedia indocinese Ritorna, come un incubo, la tragedia indocinese, tra l'assedio di Phnom Penh, in Cambogia, e la nuova offensiva comunista nel Sudvietnam. Mentre Kissinger è impegnato in un difficilissimo tentativo negoziale in Medio Oliente e, a Washington, il potere di Ford è paralizzato da un complesso confronto col Congresso, la domanda è se la tragedia sia, almeno, all'ultimo atto. Lo e, probabilmente, in Cambogia. Il rifiuto del congresso di nuovi rilevanti stanziamenti per la difesa di Phnom Penh può essere il colpo decisivo alle residue speranze di sopravvivenza del regime di Lon Noi, che gli stessi americani aiutarono a nascere cinque anni fa, ai danni del vecchio governo neutralista di Norodom Sihanuk, con una decisione di cui si misura ora tutta l'assurdità. Ma nel Sudvietnam la situazione è più complessa, sia dal punto di vista militare, sia da quello politico. Dal punto di vista militare, benché appaiano vistosi i successi dell'offensiva nordvietnamita e vietcong, il regime di Thieu non è ancora, per giudizio unanime degli esperti, alle viste di un crollo. Del resto, l'offensiva nordvietnamita non sembra avere fini «globali». L'obicttivo di Hanoi sarebbe quello di puntare dagli altipiani alla costa e di tagliare praticamentein due il Sudvietnam. Ciò, senza compromettere, come si è detto, la difesa della zona meridionale, non sarebbe «un colpo necessariamente fatale» (New York Times) neppure per la zona settentrionale, grazie alla mobilità aerea delle truppe di Thieu. Dal punto di vista politico, la situazione vietnamita è diversa da quella cambogiana soprattutto in questo: che non è in atto una guerra civile in senso stretto, ma un conflitto più ampio, che coinvolge direttamente un Paese formalmente indipendente ed estraneo come il Nordvielnam. Ciò continua ad avere un certo peso su settori non trascurabili del Congresso e dell'opinione pubblica degli Stati Uniti, compresi giornali come il Washington Post. Nonostante la tragica lezione del passato, si è restii ad estinguere ciò che resta del vecchio « impegno » americano. Le stesse potenze comuniste (Urss e Cina) sembrano non sottovalutare questo aspetto del problema: almeno finora, non sono parte interessate a una conclusione drastica, che fosse un affronto plateale alla superpotenza occidentale. Tutto questo può significare, alla fine, che gli Stati Uniti confermeranno, magari per un periodo determinato, il loro programma di aiuti a Thieu, nella speranza di arrivare finalmente a un negoziato di pace risolutivo. E' una speranza fondata? L'esperienza di tutti questi anni è disastrosa, da ogni punto di vista, e non autorizza risposte positive. Cominciò Johnson a dire che i devastanti bombardamenti sul Nordvietnam sarebbero serviti ad affrettare i tempi di un negoziato equo: e venne l'offensiva del « Tct ». Poi fu Nixon a sostenere che fosse ancora necessario bombardare per ottenere da Le Due Tho una « pace con onore »: e vennero gli accordi di Parigi, dei quali si può apprezzare ora il significato concreto. L'unico risultato che, verosimilmente, può ora venire da un nuovo programma di aiuti al regime di Saigon è di prolungare la sopravvivenza, di rinviarne la fine, insomma di guadagnare tempo. E' un risultato accettabile? Dipende dal modo in cui s'intende impiegare il tempo guadagnato. Se è per rilanciare la « credibilità » americana nel mondo, o per impedirne la caduta, come si riferisce che dica Kissinger nelle more della spola tra Gerusalemme e Assuan, siamo in presenza di un vecchio equivoco. Ha ragione James Reston a osservare che non è in discussione nel mon¬ ddo

Persone citate: James Reston, Johnson, Kissinger, Lon Noi, Nixon, Norodom Sihanuk, Thieu