Una leggenda inventata di Massimo Mila

Una leggenda inventata "La Falena,, di Smareglia in scena a Trieste Una leggenda inventata Recuperato il melodramma ottocentesco a lungo lontano dai teatri per una superstiziosa diceria - La direzione di Gianandrea Gavazzeni; la regìa di Filippo Crivelli (Dal nostro inviato speciale) Trieste, 19 marzo. Verso la fine d'una buona e ricca stagione, confortata anche qui da assidua presenza di pubblico, il Teatro Verdi ha varato una nuova fase di quell'operazione di ricupero ch'esso giustamente svolge nei riguardi di Antonio Smareglia, il maggiore musicista triestino, al suo tempo radiato praticamente dalle scene a causa d'una ridicola e superstiziosa diceria, forse messa in giro dai suoi nemici. La falena, del 1897, è la seconda delle quattro opere più importanti di Smareglia (che ne scrisse in tutto dieci), e segna una svolta dopo il verismo di quelle Nozze istriane che divennero la sua opera più popolare. La svolta si accompagnò alla scelta d'un nuovo librettista, nella persona del giovanissimo Silvio Benco, finissimo letterato che doveva poi occupare un posto di rilievo nella originale cultura triestina. Non più verismo ma, come stabilisce Gianandrea Gavazzeni nella prefazione alla recente pubblicazione degli Scritti musicali di Benco per l'edizione Ricciardi, teatro di poesia. Di «povesia», si vorrebbe scrivere, sull'esempio della «pouasie» sbeffeggiata da Eric Satie, perché qui sta l'equivoco: credere che la poesia, anziché una qualità, un crisma che può scendere su qualsiasi argomento e può rifiutarsi ad onta di tutte le sollecitazioni, sia una questione di contenuti, alcuni ritenuti a priori «poetici», e altri no. Praticamente, sebbene Smareglia e Benco veleggiassero sulle onde trionfali del wagnerismo, si trattava in realtà d'un'estensione italiana di quel simbolismo che allora trovava in Francia più acconcio stile musicale nella semirivoluzione antiwagneriana di Debussy. L'obiezione principale che fu rivolta ai suoi tempi a La falena, e che Benco respingeva con infastidito dispetto — non potersi «inventare» una leggenda — conserva la sua consistenza. Appare infatti gratuita questa storia di una misteriosa creatura — la fale na — che in una imprecisa costa europea dell'Atlantico nei primi tempi dell'era cri stiana, esce dai suoi boschi per ammaliare quel bravo giovane di re Stellio, tutto caccia e buoni sentimenti, strapparlo all'amore della gentile Albina e armargli la mano contro il padre di lei, Uberto, e poi ritirarsi sconfitta nelle sue grotte all'apparire del giorno. Questa storia fu verseggiata clnl Benco con eleganza boitiana di vocaboli preziosi e Smareglia la rivestì d'un torrente di musica robusta nell'invenzione orchestrale (un po' più generica nell'espres . | sione vocale), che riecheggia sì, Wagner (nella continuità del discorso), l'ultimo Verdi (nel brindisi dionisiaco della falena) e magari Boito (nel finale dell'atto primo), ma in qualche caso anticipa in modo sbalorditivo Strauss, che a quel tempo non aveva ancora conosciuto alcuna fortuna operistica. Certo melodizzare dei corni nel grande monologo della passione furiosa, l'orchestrazione sontuosa e grondante, ingannerebbero chiunque: dimostrazione singolarissima e quasi matematica del fatto che, partendo da eguali premesse (Wagner) e operando in ambiente culturale analogo (Trieste faceva parte praticamente dell'area musicale tedesca), si perviene per vie indipendenti ai medesimi risultati. L'opera ragguardevolissima, e tuttora capace di presa, come dimostra il successo entusiastico qui ottenuto, con ripetute acclamazioni e lancio di fiori agli interpreti, ha pertanto un solo difetto: non è vera. Invece che un dramma, così e così determinato da irresistibili condizioni, è un'ipotesi di dramma, scelta a capriccio tra infinite altre possibilità, altrettanto gratuite e altrettanto plausibili sul piano formale. L'esecuzione triestina l'ha difesa al meglio. Gavazzeni è un apostolo patentato di questi recuperi tardo-ottocenteschi, ai quali si accosta con una sintesi inimitabile di affettuosa indulgenza e di superciliosa consapevolezza cul- turale: sa benissimo cosa c'è che non marcia, e questo non soltanto gli evita il rischio di cadere nel tranello dell'adesione enfatica e incontrollata, ma anzi gli suggerisce il bandolo per salvare la situazione. Non solo l'eccellente esecuzione orchestrale, ma anche quella d'alcuni interpreti è plasmata dalla sua preveggenza. Leyla Gencer, di solito specializzata nel repertorio lirico del primo Ottocento, ma non nuova, nella sua versatile carriera, alle tempeste del post-verismo, ha dato incandescenze sulfuree alla parte della protagonista (che curiosamente è indicata come mezzosoprano nello spartito, mentre in realtà è più alta dell'altra parte femminile). E non si è lasciata sfuggire le due occasioni possibili per piazzare i suoi famosi pianissimi di note filate. Ottima anche Rita Lantieri nella parte di Albina. E' questo il personaggio in cui meglio si esplica quel «concetto dell'angoscia» che ancora Gavazzeni ha bene individuato al fondo del prezioso decadentismo letterario di Silvio Benco, e la Lantieri — voce fresca e figura giovanile — l'ha reso con sincerità, riscattandolo il più possibile dal convenzionale. Anche re Stellio dovrebbe apparire, secondo le parole di Benco, uno di «questi esseri impressivi» che nella loro primitiva anima assaporano trepidando l'eccesso della vita. Ma è risultato un personaggio schizofrenico: come biondo re cacciatore, aitante e barbarico, richiede un tenore eroico, e qui Ruggero Bondino va benissimo; ma ci vorrebbero tutt'altri accenti per rispondere: «Sono un fanciullo, un orfano errante» alla pantera nera che, come «una forza della natura», lo aggredisce d'un «furioso amplesso» nella sua grotta. Questi altri accenti la voce prestante di Bondino non li conosce, ma va detto a sua scusante che, tutto sommato, essi non ci sono nemmeno nella musica. Bellissima realizzazione scenica. Le scene di Pierluigi Samaritani (nell'eccellente attuazione dello stabilimento scenografico del teatro, diretto da Mario Rossi) si giovano di preziose allusioni pittoriche: il primo atto è un paesaggio con figure di Watteau o di Claudio Lorenese; l'antro della maga, col suo lusso barbarico di porpora e oro, ha il decadentismo ambiguo di Gustave Moreau, dove il sesso sconfina nella religione, l'alcova simula l'altare. La regia di Crivelli ha il merito di ani- tGttamare questi valori pittorici col movimento delle figure, governato dalla medesima in-1 dulgenza, affettuosa ma culturalmente consapevole, che Gavazzeni mette nella concertazione. Lavorando in concordia d'intenti hanno conseguito un risultato che ha incantato il pubblico spingendone al calor bianco l'entusiasmo cittadino. Massimo Mila

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