arduo bilancio a torino, ventanni dopo di Giorgio Martinat

arduo bilancio a torino, ventanni dopo arduo bilancio a torino, ventanni dopo La grande immigrazione Poteva essere una tragedia e non lo è stata: l'amalgama si è formato, lo scontro tra "culture" s'è avviato verso la composizione - Ma il dramma resta per quelle frange cospicue che il faticoso meccanismo dell'integrazione ha lasciato ai margini « E dall'altra parte del fossato ci siamo noi, i benpensanti, che ogni mattina aprono il giornale per leggere l'ultima notizia di cronaca nera e sentirsi buoni, onesti. Superiori, ancora una volta ». Don Gigi Richiardi, parroco a Valdocco nel cuore di Torino, parla senza enfasi del fossato che, da venticinque anni, divide in due la città. E' uno dei sacerdoti che fanno qualcosa per tentare di colmarlo: « Abbiamo diffuso migliaia di volantini per la "riconciliazione" con i meridionali. Perché la gente cominci a riflettere, si chieda se ha veramente le mani pulite di fronte alla violenza nelle nostre strade, di fronte a tanti ragazzi traviati ». I volantini sono divisi in due sezioni. Da una parte, qualche breve nota sulla Sicilia, sulla Calabria, sulle Puglie, in cui si tenta di descrivere la realtà culturale da cui gli immigrati sono partiti. Dall'altra, il loro scontro con la città: « Per le nostre strade, in alcuni bar, adole¬ scenti che hanno già provato il "Ferrante Aporti" o il carcere fanno scuola ai più piccoli e insegnano i trucchi del mestiere. All'oratorio, come a scuola, non passa giorno senza che qualcosa sia fracassato. Nei giardini, panchine divette e giochi fuori uso ». Poi, l'invito a riflettere, a respingere la facile condanna: « Per molti, la vita è stata troppo dura. Famiglie numerose, stipate in alloggi malsani, con uno stipendio paterno appena sufficiente per sopravvivere, ragazzi buttati fuori troppo presto da una scuola che non ha saputo dar loro una mano ». Scuola colpevole Dice don Richiardi: « Tutti 1 ragazzi già emarginati in partenza, figli di gente di poca cultura, di immigrati, di poveri, che soltanto la scuola avrebbe potuto aiutare. Ma entrando in aula hanno trovato un muro ». Raccontano i volantini: « Alla De Amicis ci sono alunni dì quìndici anni che frequentano ancora le elementari e al doposcuola non c'è posto per alcuni di loro: "Sono insopportabili", si dice ». Oppure: « Alla media Verga si sta parlando di corsi di sostegno per i ragazzi più deboli, ma pare che qualche professore non sia d'accordo: "Tanto è inutile, non si può che bocciarli" ». La scuola è, se non la prima, una delle grandi responsabili. Una inchiesta condotta per conto del Comune su un campione di 120 famiglie di immigrati con 831 componenti (sette per fami- glia) ha mostrato non sol- tanto l'alta frequenza di sin- dromi morbose da denutri- zione in chi proveniva dal Sud, ma anche sintomi di di- sadattamento, nevrosi, disturbi del carattere. Ha anche rilevato (con test estremamente discutibili per le condizioni in cui sor.o stati applicati) che il 67,5 per cento presentava un quoziente di intelligenza inferiore alla media: l'unica soluzione sugge- rita, allora, dall'assessorato all'Istruzione, fu il confino nelle classi differenziali. La segregazione nella scuola, dopo la segregazione nella comunità. Uno studio condotto nel 1969 dall'Istituto di psicologia sociale e sperimentale dell'Università, diretto dalla prof. Angiola Massucco Costa, ha rivelato come il trau dtlpccAfsldi sma' dell'immigrazione possa j srisolversi in una perdita di ! Pidentità, o almeno dello stru- I cmento in cui essa si esprime: ! sil linguaggio. Il dialetto na-1 tio, legato a condizioni d'am- j o I biente e di cultura compie- 1 s tamente diverse, risulta inser-1 r vibile ed è sostituito da un I l lessico composto di poche j7 I centinaia di parole, apprese | lper lo più in fabbrica e al I pmercato: « Per molti, l'acqui- \ vsizione coatta della lingua i Qitalìana immiserita e viziata, \ vè un altro atto di violenza: mavviene per necessità di la- dvoro e di consumi, sempre in \ mcondizioni dì rapporto subai terno, e produce un linguaggio chiuso e povero. Non più quello della regione nativa, ricco di succhi vitali, né quel tacfpflo delle classi superiori, che\lnon è attingibile dall'uso co- cmune senza tirocinio scola- sstico » La spiegazione del fai- dlimento dei test sul quoziente ] lintellettuale è, probabilmen- ! rvdTtte, tutta in questa privazione dei mezzi di espressione. Che è anche la prima radice di tanti fallimenti. « E per chi non riesce a i insediarsi con profitto, conclude l'inchiesta, restano solo ' due strade: il ritorno, sfuggi-1 to come marchio di insuccesso e di degradazione, o la progressiva discesa verso la povertà assoluta e l'esclusione dalla vita sociale anche dei compaesani più fortunati. In molti casi, questa è la strada che porta alle devia nscgslmm,ìc,t,ì frinii in mi freauen I szioni sociali, la cui frequen- za tra gli immigrati di tutte i -;» otn b mnitn oi^nfn- rirm ! sgtnvvrule età è molto elevata: circa il novanta per cento dei ragazzi che finiscono davanti al tribunale dei minori escono da famiglie immigrate ». Dice don Richiardi: « Nel nostro quartiere, attorno ai traffici clandestini del contrabbando che si svolgono ai margini del Balón, si è formato un mondo chiuso e impenetrabile: ogni tentativo di stabilire un dialogo si infrange ». Chiedo: « Ma i vostri sforzi di spiegare le cause storiche e sociali di questi fenomeni, il vostro invito a comprendere e ad aiutare, serve a qualcosa? ». Risponde: « Tra i giovani, si. Tra gli adulti, no. Anche qui, nell'altra parte del fossato, si incontra un mondo chiuso, che rifiuta di allargare il dialogo oltre la pura e semplice sentenza di condanna ». Diffidenza, incomprensione sono le conseguenze di questo dramma moderno di una città che si è industrializzata rapidamente, senza controllo, raddoppiando quasi, in vent'anni, i propri abitanti. Oggi, riguardando serenamente quanto è accaduto e confrontandolo con gli uguali, grandi fenomeni migratori del passato, ci si accorge che avrebbe potuto essere una tragedia e non lo è stata. Nella maggior parte dei casi, bene o , J male, l'amalgama si è forma < to, lo scontro fra « culture » \ (nessuno saprà mai a prezzo ! di quali sacrifici individuali) si è risolto e composto. An ! che nei momenti di maggiore i difficoltà e asprezza, non è \ mai stato cruento, come è talvolta avvenuto nelle faide di paese, fino a pochi anni or sono, in questa terra di campanili e particolarismi comunali. Ma il dramma resta per quelle frange, cospicue, che il faticoso meccanismo di inte- I grazione ha lasciato ai mar- ! gini. Quali sono le responsa- i bilità della città, di tutti, per [ questo stato di cose? n prof. Filippo Barba no, docente di sociologia al I l'Università, spiega: « C'è, pro prio sul piano culturale pri- ma di ogni altro, un grande ritardo. Curioso destino di questa città, che è capace al tempo stesso di enormi spinte espansive e di una sconcertante incapacità a digerirne le conseguenze ». I valori scaduti L'espansione non soltanto territoriale, ma anche ideale, della Torino del Risorgimento si concluse con la perdita del rango di capitale e con la « contrazione » della città in se stessa, entro i limiti ristretti di una cultura parrocchiale. « Così la Torino dell'industria, che si lancia alla conquista dei mercati mondiali, dimostra sul piano dell'efficienza, della tecnologia, una ammirevole forza espansiva. Ma, di fronte alle conseguenze, ancora una volta si contrae, chiudendosi nella nostalgia della propria immagine precapitalistica ». Certo, all'inizio di questo processo Torino presentava un quadro di totale omogeneità unico forse in Italia: « Non dimentichiamo che era la città dei "battilastra" esaltati da Gramsci, dell'operaio j di mestiere consapevole delle I . pr0prie qualità professionali. I suo codice morale coinci- \ de con il codice (e con l'interesse) del capitalista nell'orgoglio dell'efficienza, nel piacere del lavoro ben fatto, che non lascia dubbi su quel che ci si è messo di proprio ». Attorno a questi valori si è formato e rafforzato il con senso di tutte le classi socia- '.li, fin quasi a una mitologia della « forte razza Piemonte-1i se » in qualche modo diver- j sa: più laboriosa, più proba, ! Più sobria, più risparmiatri- I ce, più capace di dedizione e ! sacrificio. 1 « Questo quadro di perfetta \j omogeneità, dice Barbano, si |1 spezza nel secondo dopoguer- j1 ra. Certo, non soltanto per,I l'immigrazione. In primo pia- jj710 c'e la trasformazione del | lavoro industriale, per cui la ; I professionalità operaia è di- I\ versamente valutata, in un i Quadro produttivo in cui pre- \ valgono la ripetitività e la monotonia, la parcellizzazione deUe operazioni in gesti eie\ men}^\,?.C^^ll ™l°1Ldeì ta qualificazione operaia, di cui il "battilastra" andava fiero, proprio mentre alle porte della fabbrica batte la folla dei contadini meridiona\li:.Pf.r la prima volta risuc chlat} vers° « triangolo indù- striale anziché sulle rotte tra-, dizwnali dell'emigrazione al- ] l'estero. E' come il detonato- ! re dl una situazione esplosi- va e in pochi anni il quadro di omogeneità che distingue Torino si muta in quadro di totale diversità ». i ' 1 Nuovi cittadini la, distanza tra vecchi e nuovi cittadini si misura non soltanto nei mille chilometriche corrono tra Torino e Reg- gio Calabria, ma in secoli di storia. Da un lato una popò- lazione completamente assi-milata ai principi dello Stato motìerno liberale e capitali- I sta> dall'altr0 chi giunge dal- profondità di immobili i -tnitWirp fpurinii m avpva ! strutture leudali. Lo aveva già detto Gramsci: « La men-talità del contadino meridio-naie è rimasta quella del ser- vo della gleba, che si rivolta violentemente contro i "signo- ri" in determinate occasioni, ma è incapace di pensare a se stesso come membro di una collettività: paziente e tenace nella fatica individuale capace dì sacrifici inauditi nella vita familiare, non comprende lo Stato, la disciplina, l'organizzazione ». « Quando questi contrasti, soggiunge Barbano, si instaurano su una base sociale espansiva, aperta, che in fon do trae dai motivi di diversi tà interesse e gusto per la vita, ci può essere l'incontro e non lo scontro. Ma Torino è troppo chiusa perché le dif ferenze non facciano scattare uno stimolo di "contrazione", e con esso il conflitto ». I vecchi cittadini sbigottiscono davanti al «ratto» che sosti tuisce il borghese cerimoniale di fidanzamento o al delitto d'onore: non tentano neppure di capirne le antiche radici. Pongono a confronto il pro prio riserbo nel lutto con le prefiche che vociferano at- torno alla bara o con la madre vestita di nero che davanti al corpo del figlio morto intona il canto funebre: « Cavaliere mìo bello, la morte ti ha rapito ». Nessuno spiega che questi riti sono altrettanto dignitosi dell'autocontrollo senza lacrime, perché imposti da moduli di civiltà scomparse, sopravvis¬ suti in un sonno secolare del ia società e del costume. Non c% sforzo di capire, soltanto rifiuto. « Forse anche perché, dice ancora Barbano, lo sviluppo di Torino ha allargato la con sistema di quel "ceto medio" che e il meno adatto a capi re. Si nutre di una ideologia meschina, vuole rifarsi al mo dello della classe agiata, ma assumendone i valori in ri tardo, di abiti smessi, fuori moda. Fa mostra di false aperture, mentre più di ogni auro ceto tende a fare della "contrazione" in se stessi un programma di vita riversan aosi e chiudendosi nei limi ti deUa famiglia. Un "famili smo" che la consistere tutto ■, v2f consistere tutto lt su0 bilancio nella carriera, neì lìgU nell'ostentazione dei simboli di prestigio. E', al contrario dell'universalismo, ia disposizione dì spirito me no adatta per aprirsi agli orizzonti più ampi della soli darietà e della comprensio ne „ Giorgio Martinat