Israele e Usa di Furio Colombo

Israele e Usa PROBLEMI DI UN'ALLEANZA Israele e Usa (Dal nostro inviato speciale) New York, marzo. Interverrebbero gli Stati Uniti se si profilasse la minaccia di una « soluzione finale » contro Israele? E' vero che la potenza degli ebrei americani e sproporzionatamente grande nella politica interna ed estera del Paese? Sono gli israeliani che comunicano agli americani la continua ossessione della sopravvivenza, o sono gli americani ebrei che si confrontano con un eccesso di tensione e di zelo con i problemi del Medio Oriente? Si deve smettere di credere alla salvezza di Israele come a un fatto morale c irrinunciabile? E' la pressione della nuova ricchezza araba o soprattutto il buon senso che spinge a considerare con attenzione la proposta di uno Stato multinazionale e laico che dovreb be sorgere dove c'è adesso Israele? Una svolta Queste sono le domande intorno a cui gira il discorso e divampa la discussione nelle sere d'inverno newyorkese, fra intellettuali, classe media, studenti, conservatori, vecchia e nuova sinistra, professionisti della politica e gente qualunque. Appena arrivato a New York mi hanno detto: «Ci faccia caso. Il fatto nuovo è questo. Se arriva un ebreo nel gruppo, e se non è proprio un amico, in genere si cerca di cambiare discorso. Discutere non è più così facile ». Protagonisti non presenti ma continuamente citati di queste discussioni sono personaggi noti e ignoti della vita politica e della cronaca americana. In modi diversi essi rappresentano il cambiamento. Per esempio (cito il New York Maga zine) il sindacalista che alla riunione del partito democratico di Kansas City (la cosiddetta « mini - convention ») prende il microfono e dice: « Abbiamo tutti simpatizzato per Israele, ce lo hanno insegnato fin da bambini. Ma adesso basta ». O quel leader locale del partito democratico che in un sondaggio d'opinione assicura: « In caso di attacco sarà come la Cecoslovacchia e l'Ungheria. Molto risentimento, molte discussioni, ma nessuno muoverà un dito ». Thomas Higgins, ventinove anni, deputato dello Stato dello Iowa: « Ho il terrore della catastrofe atomica a causa di Israele. Tutti noi l'abbiamo ». A nome di chi parla il giovane deputato? Si sta formando una crisi di rigetto verso Israele, proprio in Ameri ca? Prende la parola Elizabeth Boukas, una proprietaria terriera di Dunningan, California, che aveva raccolto per McGovern, fra piccoli contribuenti della sinistra democratica, quasi trentamila dollari. Dice, alla riunione del partito per cui votano quasi tutti gli ebrei americani: « I terroristi sono gli israeliani ». Più di lei ha fatto notizia Sol Linowitz. Al convegno di Kansas City tutti aspettavano che su questo argomento parlasse Linowitz. Tra i grandi uomini d'affari di origine ebrea, è stato uno dei pochi a cui sia riuscito il gran salto dall'azienda alla vita politica. Era presidente della Xerox, è stato ambasciatore americano presso l'Organizzazione dei paesi latino-americani, è fra coloro che hanno buone prò spettive per il Senato o il governo. Al problema di Israele Linowitz ha dedicato poche parole, queste: « Il solo pun to di riferimento è l'interesse degli Stati Uniti. Gli argomenti emotivi non servono ». Gli ascoltatori si sono domandati se non stesse nascendo un problema di identità e di imbarazzo. Era passata da poco la sorpresa per un altro intervento. Questa volta la scena sono le elezioni dello scorso novem bre e il protagonista è Alex Rose, il capo del piccolo ma influente «partito liberale» che controlla una zona « progressive » del voto ebreo di New York. Rose non ha voluto neppure saperne di sostenere un governatore ebreo per lo Stato di New York. L'argomento che c'è già un sindaco ebreo gli è sembrato determinante. Sono stati in molti a riflettere in silenzio sul fatto che nessuno si sarebbe posto il problema nel caso di due protestanti. Ciò significa che « essere ebreo » continua a essere un segno, e un problema, nel la cultura americana. Eppure erano in tanti a credere nella potenza degli ebrei americani, una potenza brechtiana, con panciotto, sigaro, titoli e ciminiere fumanti. Sono passati tanti anni, e pochi ricordano da dove venivano queste immagini. Lo dimostra la buona fede del generale Geor ge Brown, il capo di Stato Maggiore delle forze armate, dunque uno degli uomini più importanti in America. George Brown, in dicembre, è a pran zo con alcuni amici giornalisti e sa di non dover contro! lare ogni parola che dice. E quello che dice diventa per tutta l'America una frase esem piare. Imbarazza al punto ch^: Ford deve sgridare il suo generale. Ma resta la buona fede di Brown. Rappresenta una realtà che sembrava sepolta. Ecco la frase: « Gli ebrei (in America) controllano Wall Street, il danaro, l'industria, i mass media e anche il Pentagono. Basta che dicano e noi mandiamo, gratis ». La frase ha fatto impressione perché in poche parole contiene due facce. Una sono gli ebrei in un Paese, l'America. A Brown sembra che « controllino tutto ». Un generale legge poco, non ha un gran giro mondano e sta piuttosto in ufficio o in famiglia. Se le dice lo pensa. E se Io pensa vuol dire « che è un pensiero comune » perché tutta la sua cultura — è ragionevole credere — è fatta di pensieri co munì. Con la sua faccia onesta di funzionario è apparso in televisione a scusarsi. Ma le ru ghe sul suo viso umiliato sembravano dire: perché, non è vero? Ma la frase di Brown, come ho detto, ha due facce. E la seconda è il riferimento a Israele legato alla « potenza » degli ebrei americani. « Basta che dicano e noi mandiamo ». Intendeva le armi. E di nuovo mostrava, con l'onestà che è impossibile non riconoscergli, un pensiero che forse è comu ne. Il pensiero è questo: « Attenzione agli ebrei. Non è detto che non abbiano due patrie, due anime, due identità. Saranno davvero dei buoni ame ricani, in una situazione di crisi? ». In questo periodo l'argomento non è rimasto isolato. A distanza di pochi giorni il vicepresidente Rockefellei ha detto: « Sono in favore di un riconoscimento del fronte palestinese guidato da Arafat». Il senatore negro Julian Bond ha ripetuto « Non aspettatevi dai negri e dalla classe media un sostegno per Israek in caso di guerra ». Il senatore Percy, liberale repubblicano, è tornato da un viaggio e ha detto di avere trovato « Arafai moderato e Israele intrattabile». Il senatore Buckley, con servatore di destra, ha commentato: « Con gli ebrei, se non gli dai retta al cento per cento, hai chiuso ». « Questi episodi — ha scritto Meg Greenfield su Newsweek — ripropongono agli ebrei americani la conclusione opposta (all'affermazione del generale Brown). Non richiamano alla mente l'influenza e la potenza, ma piuttosto una posizione precaria e una vulnerabilità senza fine... La bestia di un antisemitismo ufficiale non è mai cosi lontana come si desidera credere. E su questo punto si forma un imbarazzato silenzio ». Il silenzio si riempie di argomentazioni e di fatti. In ogni gruppo di discussione qualcuno ricorda che Israele ha perduto un'occasione preziosa rifiutando di trattare con Hussein. Altro tema sono le terre occupate, e la necessità di abbandonarle attraverso un solido negoziato. Infine c'è chi ricorda l'errore, nato con Johnson ma favorito da Rabin, che allora era l'ambasciatore israeliano in America: l'equazione fra Israele e Vietnam, che adesso non può che invelenire il discorso. Il passato Tre senatori su cento, due governatori su cinquanta, ven ti deputati su quattrocentotrentacinque, una assenza quasi totale dal mondo della grande finanza e delle banche non compongono certo il quadro di una irresistibile for za ebrea, finanziaria e politica. La gente sa che i veri ricchi americani si chiamano Getty e Rockefeller e che generazioni di episcopali si passano le grandi ditte di Wall Street. Ma un piccolo generale Brown, che in buona fede, fin da pri ma di Hitler, pensa il contra rio, è nella testa di tanti. Più di quanti si era pensato, come sta rivelando quest'ultima cri si. E l'anello del disagio, o dell'imbarazzato silenzio, sta proprio in questo discorso non fatto. Agli ebrei si chiede di dimenticare il passato, di smet terla di parlare di Auschwitz. Questa richiesta si fa imperio sa, evoca una minaccia (la pe na è di condannarsi da soli a restare « diversi »). E ciò avviene mentre la cui tura del mondo, e specialmente la più liberale, celebra la sfida ribelle di tutte le minoranze, in nome del passato e delle sofferenze patite. Etiopia e Eritrea combattono all'ultimo sangue. Ciascun popolo si contende la stessa terra come hanno fatto Pakistan e India, come è accaduto nel Bangladesh, e nel Kashmir, a costi umani spaventosi, con episodi di crudeltà allucinante. Ma nessuna di queste nazioni è stata paragonata a Taiwan o al Sud Africa. Israele ha commesso errori, viene detto agli ebrei americani, che spesso sono stati verso Israele (almeno gli intellettuali) più f.-veri dei generali e di Nixon. Pregiudizi Ma adesso l'opinione ebrea americana si chiede se questi tre milioni di ex deportati immersi in un continente di centoventi milioni di arabi hanno commesso errori più gravi e più odiosi dell'Eritrea e dell'F'iopia, dell'India e del Pakistan, di Ceylon verso le sue minoranze spazzate in una stagione. Sanno che al le Nazioni Unite e all'Unesco siedono a destra e a sinistra Paesi che da non più di trent'anni hanno « assorbito » culture e lingue vecchie di secoli, tracciando frontiere e tagliando città secondo «gli equi libri del mondo». Ma le Nazioni Unite applaudono al progetto Arafat di un paese «multinazionale e laico», un progetto giusto o ingiusto comt rifare a tavolino la Jugoslavia. Intanto la cultura progressista del mondo « capisce » le lotte di ogni piccolo gruppo che si rivolta maledicendo i residui legami di sangue e di simboli ogni volta che li giudica estranei. E definisce co loniale l'idea di forzare due diverse tribù a seppellire il passato. Sono tragedie che la gente perdona, dalle Filippine all'Irlanda. Gli ebrei americani si guardano incerti. La frase del generale Brown sarà un lapsus. Ma l'imba razzo continua a salire. Robert Strass, presidente del partito democratico, ebreo, aveva chiesto a un rabbino di benedire i lavori della « miniconvention » di Kansas Ci ty. All'ultimo momento h-.i cambiato idea. Ha pensato che il pastore della chiesa vicina avrebbe rappresentato meglio gli umori dell'assemblea. Furio Colombo