Fratelli sorpresi a rubare assassinaroao due persone: condannati a 17 e 10 anni di Remo Lugli

Fratelli sorpresi a rubare assassinaroao due persone: condannati a 17 e 10 anni Processo per due omicidi alla corte d'assise di Ivrea Fratelli sorpresi a rubare assassinaroao due persone: condannati a 17 e 10 anni Uno è seminfermo di mente, l'altro, totalmente infermo, sconterà la pena in manicomio giudiziario I delitti avvennero nel gennaio di cinque anni fa : le vittime furono uccise a colpi di sedia e rivoltellate (Dal nostro inviato speciale) Ivrea, 11 marzo. Per la corte d'assise non vi sono dubbi sui due fratelli Angelo e Giuseppe Mandolino: sono stati loro che hanno ucciso prima Maria Romano, di 74 anni, nel gennaio '70, e poi Giovanni De Laurenti, 70 anni, nel settembre dello stesso anno. Ha condannato Angelo, giudicato seminfermo di mente, a 17 anni di reclusione per omicidio continuato e a tre anni di casa di cura; e Giuseppe, giudicato totalmente infermo di mente, al manicomio giudiziario con una permanenza di dieci anni. Un processo rapido: inizio alle 9 e conclusione alle 17, nonostante un numero considerevole di testimoni, 46. Il fatto è che gli elementi a carico dei due fratelli sono apparsi ai giudici, nonostante gli sforzi dei due difensori, l'avvocato Renato Chabod per Giuseppe e l'avvocato Giorgio Oberto per Angelo, molto evidenti. I delitti furono efferati: spietato, selvaggio il primo, freddo e sbrigativo il secondo. Il movente fu il furto, o meglio, il tentativo di furto, perché non risulta siano stati asportati dalle due abitazioni oggetti o denaro. I due uccisero perché sorpresi. E infatti la sentenza per Angelo aggiunge alla pena per l'omicidio anche sei mesi per il tentato furto. La Romano, possidente, abitava in una villetta ad Agliè, lo stesso paese dei due Mandolino. Angelo andò a casa sua qualche giorno prima del delitto per chiederle se in-endeva affittare una cascina. La prova generale, secondo 'accusa. Il delitto accadde la notte del 10 gennaio, ma soltanto un paio di giorni dopo venne scoperto da una sorella della vittima, che era andata a farle visita. Il cadavere, av- volto in un lenzuolo e chiuso n un sacco di juta, era nel lo- cale della caldaia. La testa era stata fracassata a colpi di sedia. L'altro delitto era stato compiuto nella notte del 7 settembre. Giovanni De Lau-renti, ex bracciante, pensiona- to, che viveva solo in una bai- ta isolata a Torre Canavese, 1 era stato ucciso con quattro colpi di pistola Solo nell'ottobre '73 i carabinieri arrestarono i fratelli Mandolino: la moglie di Giuseppe aveva raccontato di aver sentito i due parlare del delitto, per di più il marito le aveva confidato che a uccide- ! re la Romano era stato Ange lo, mentre insieme stavano | per compiere un furto. Le in I dagini consentirono poi di i scoprire nella piccola officina ! di Angelo una pistola calibro 1 22, alla quale era stata cam biata la canna. Trovarono an cne- murata, la canna che ave va sparato. Giuseppe e padre di tre figli, di 17, 15 e 12 anni; pregiudicato, è stato sottoposto a una perizia e ritenuto totalmente infermo di mente. Il volto rosso tradisce il suo passato di alcolizzato. Angelo è scapolo; i periti che l'hanno avuto sotto osservazione l'hanno considerato seminfermo di mente. Entrambi non . hanno mai confessato agli in i quirenti o ai magistrati. Esi stono soltanto le confessioni stragiudiziali che stamattina : sono state riconfermate da al Cuni testi. La moglie di Giu i seppe, Rosa Lazzari, che già a suo tempo aveva denunciato il marito per sfruttamento | della prostituzione (ma l'uo :mo era poi stato assolto), ha | ripetuto ai giudici quel rac | conto che le aveva fatto il marito: «E' stato Angelo che ha ucciso la Romano, mentre eravamo là per rubare». Guerrino Vesco, marito di una sorella di Giuseppe, ha ripetuto d'aver sentito il cognato dire: «Bisogna fare attenzione ad Angelo perché ha ucciso la Romano». La stessa sorella dei Mandolino, Ardita, ha deposto contro i congiunti: «Giuseppe mi ha detto che Angelo aveva ucciso anche De Laurenti». Molti dei testi non hanno aggiunto nulla al processo. Fra le deposizioni di un certo peso si possono ricordare è o o ali udi el e e- eo ndi a o mneiu a lIl o o o ne rn nini na lu a to to oha c il he re di riancsa a, nhe De no o. to re quella di Antonio Pirolo, custode delle carceri di Cuorgnè, e quella di Carmelo Cutrupi, che nell'ottobre del '73 era in galera con Angelo. Il Mandolino aveva descritto com'erano stati commessi gli omicidi ed aveva anche aggiunto: « Dopo tre anni non me lo sarei aspettato che mi arrestassero ». Giuseppe si alza: «Voglio la verità, non posso capire come si possa arrestare un padre di famiglia che ha sempre lavorato. Sono in carcere per qualcosa che non ho commesso, io ho l'animo pulito, controllate bene mio fratello. Giuro davanti a Dio di essere estraneo ai fatti». A queste parole il fratello resta impassibile, come se non lo riguardassero. Anche lui poi si professa innocente. Il p.m. Cerasoli descrive i delitti, li identifica per genesi e matrice: i ladri, riconosciuti, hanno ucciso. «In entrambi i casi le menti malate hanno reagito in ugual modo al fatto causale ». Passa poi in rassegna gli elementi d'accusa, ma si deve interrompere: Giuseppe smania, grida: «Non è vero, questa non è giustizia». Lo devono allontanare dall'aula. Il dottor Cerasoli conclude la requisitoria chiedendo 16 anni per il duplice omicidio, tenendo conto della seminfermità per Angelo; Giuseppe non dev'essere imputabile per totale infermità di mente, per lui chiede il manicomio criminale. Giuseppe Mandolino viene fatto rientrare in aula quando incomincia l'arringa dell'avvocato Giorgio Oberto, difensore di suo fratello. Non di ladri sorpresi, si tratta secondo Oberto: «Gli assassini saranno persone che hanno voluto compiere una vendetta». Confuta poi la certezza sul cambio della canna della rivoltella. Chiede per Angelo l'assoluzione per insufficienza di prove. L'avvocato Renato Chabod, per Giuseppe, si sofferma a parlare dell'accusa della moglie, donna, sottolinea, non credibile anche perché è stata più volte ricoverata in casa di cura per disintossicarsi dall'alcol. «Contro Giuseppe non ci sono elementi di colpevolezza — dice il difensore — perché non si possono ritenere valide le cose raccontate dal guardiano delle carceri, visto che quando lui le riferì, i particolari del delitto erano già stati pubblicati da La Stampa». La richiesta è di assoluzione per non aver commesso il fatto o per insufficienza di prove. Ai giudici (tre donne e tre uomini, i popolari) basta un'ora di camera di consiglio per pronunciare il verdetto di condanna. Giuseppe alla sentenza non batte ciglio, Angelo fa cenno al suo avvocato: «Voglio ricorrere in appello», gli dice, pacatamente; e porge i polsi alle manette. Remo Lugli

Luoghi citati: Agliè, Cuorgnè, Ivrea, Torre Canavese