Camere e campi son vuoti di Nicola Adelfì

Camere e campi son vuoti Voi e noi di Nicola Adelfì Camere e campi son vuoti Chi comanda in Italia? Una risposta, sia pure parziale, trovo nelle parole di un vivace deputato democristiano, Bartolo Ciccardini: «Il potere è emigrato dal Parlamento ai partiti, dai partiti alle correnti, dalle correnti alle zone d'ombra dove le correnti vengono finanziate. La crisi del Parlamento è ormai angosciosa. L'aula perennemente vuota, i dibattiti artefatti e falsi. La stessa cerimonia del voto (inutile e squallida con i deputati che si accalcano per prendere il treno) viene spesso inficiata da irregolarità. Tutto è già deciso altrove. Per i corridoi girano i faccendieri, gli esponenti dei gruppi finanziari che sollecitano questa o quella leggina. Trattano con i membri delle commissioni senza ritegno e vergogna ». Ringrazio il lettore G. Parenti che da Milano mi segnala le denunce dell'on. Ciccardini. Mi capitano a proposito per rispondere al lettore Domenico Roccia di Vercelli, già dipendente comunale, e molto amareggiato perché dal luglio del 1970 non gli «è stata pagata una sola lira per la riliquidazione della pensione ». Se egli reclama, lo invitano a pazientare; e passano gli anni. Nella sua lettera il signor Roccia aggiunge: « Ma a che serve chiedere giustizia, rivolgersi a onorevoli e altri pezzi grossi, se dei pensionati nessuno s'interessa? ». Già, a che serve, se alcune categorie di pensionati non hanno i mezzi per mandare nei corridoi del Parlamento faccendieri « senza ritegno e senza vergogna »? Andiamo avanti nello spoglio della corrispondenza. Ecco qui una lettera da Callianetto (Asti): «Data la pluralità degli argomenti che lei usa trattare, la pregherei di commentare questa mia lettera ». E' lunga e volentieri ne segnalo i punti essenziali anche perché altri lettori mi sollecitano spesso a battere sullo stesso chiodo. Protagonista e « la grande ammalala », « la cenerentola », « la sedotta e abbandonata » della nostra economia. Voglio dire l'agricoltura. Secondo il lettore, « si è scelto il momento meno propizio per affidarla alle Regioni. Già in agonia prima dell'istituzione delle Regioni, l'agricoltura è stala smembrata e assegnala u organismi periferici senza nessuna esperienza in materia: sicché possiamo ben affermare che la grande ammalata ha cessato di vivere e aspetta nel fondo della fossa che il necroforo la ricopra di quella stessa terra che l'Italia non ha saputo utilizzare mantenendosi al passo col progresso ». Poiché da anni gli stanziamenti per l'agricoltura si sono ridotti a quasi niente, « altre stalle chiudono i battenti, migliaia di ettari vengono lasciati incolti, le generazioni anziane sono le uniche rimaste sui campi, nei paesi rurali i funerali sono molto più numerosi dei battesimi. Di questo passo, fino a quando l'agricoltura potrà resistere? ». Questo non lo so. Posso solo prevedere che, anche da morta, l'agricoltura continuerà a essere un pretesto per gonfiare enti centrali e locali di spese e di impiegati. Ed e un vero peccato. Teniamo a mente che il nostro Paese, scarso com'è di materie prime, deve importarle, trasformarle ed esportarne una parte. Nel caso di una crisi mondiale, come ora, le materie prime costano di più, ed esportare diventa più difficile. Perciò e veramente triste vedere trascurata l'unica materia prima che possediamo, la terra. Complessivamente disponiamo di 30 milioni di ettari, e insieme con molti lettori penso che una moderna organizzazione industriale e commerciale ci consentirebbe di vivere meglio di ora. Tra l'altro, avremmo un numero minore di disoccupati, e la bilancia commerciale non sarebbe più appesantita fortemente dall'importazione di prodotti alimentari (adesso ci costano circa la metà di quel che paghiamo per comprare petrolio). Fatti i debiti scongiuri, supponiamo poi, come fanno alcuni economisti, che la crisi nel mondo diventi una grande e lunga catastrofe. In quel caso, con un'agricoltura viva avremmo quanto meno di che sfamarci. Ancora una lettera, e riguarda un mio articolo intitolato Un Paese che diventa Sud. Me la manda da Roma il signor Giulio Terzaghi (come di consueto, ometto i titoli accademici e onorifici). « Molto spesso sono gli italiani del Nord che. sotto la spinta di esigenze di lavoro, favoriscono spostamenti di masse dal Sud, senza una previa scelta, senza un'adeguata preparazione culturale e professionale, creando situazioni gravi ». Nella lettera seguono alcuni cauti suggerimenti per frenare la meridionalizzazione delle regioni settentrionali, mediante l'aumento dei posti di lavoro in quelle meridionali. Niente da eccepire da parte mia. Anzi, dico, magari si potesse fare a tamburo battente. Per oggi mi limito a un solo aspetto tra i tanti di quel grosso problema. Ho davanti a me una statìstica riguardante i sequestri di persona nell'ultimo quinquennio. Furono 14 nel 1970, e di essi otto avvennero nella Calabria: era un lavoro artigianale, e le somme pagate relativamente modeste, poche decine di milioni. Nel 1974 viceversa, dei 38 sequestri di persona eseguiti in tutta l'Italia, ben 14 riguardano la Lombardia, e i ricatti ogni volta ammontano a centinaia di milioni, anche miliardi. Insomma da un'attività criminosa prevalentemente meridionale e a livello artigianale siamo ora passati a una vera e propria « industria dei sequestri » localizzata soprattutto nel Nord. Così stando le cose, a chi vogliamo dare le colpe maggiori? Ai meridionali o ai settentrionali? Nella sua lettera il signor Terzaghi non pronuncia sentenze di condanna; e lo stesso faccio io. E il lettore Terzaghi mi trova anche d'accordo quando mi scrive che infine qualche cosa bisogna pur cominciare a fare per avviare a soluzione una questione secolare, la questione meridionale, certamente la principale tra tutte quelle che angustiano il nostro Paese.

Persone citate: Bartolo Ciccardini, Ciccardini, Domenico Roccia, Giulio Terzaghi, Roccia, Terzaghi

Luoghi citati: Asti, Calabria, Italia, Lombardia, Milano, Roma, Vercelli