La marcia all'Ovest di La Fayette di Alfredo Venturi

La marcia all'Ovest di La Fayette UNA MOSTRA A PARIGI SULLA RIVOLUZIONE AMERICANA La marcia all'Ovest di La Fayette Parigi, marzo. Secondo le buone regole delia storiografia più collaudata, le celebrazioni del secondo centenario degli Stati Uniti d'America non potevano che cominciare in Francia, nel Paese che con La Fayette e Rochambeau, con cinquemila soldati e la squadra navale dell'ammiraglio d'Estaing, diede un vitale contributo alla guerra d'indipendenza delle tredici colonie. Le suggestioni dell'idealismo storico vogliono che si sorvoli sul fatto che tale contributo, venuto non a caso da un ancien regime alla vigilia della Rivoluzione, rientrasse non certo nell'ansia di liberazione di popoli oppressi, ma piuttosto nella radicata ostilità anti-inglese di una Francia che cercava la rivincita dopo le umiliazioni diplomatiche seguite alla guerra dei sette anni. Così come le buone maniere, rese imperative dai burrascosi rapporti fra Stati Uniti e Quinta Repubblica, impongono di sorvolare sul fatto che la Francia del Direttorio, morti ormai sulla ghigliottina Danton e Robespierre, i due grandi amici della causa americana, fu sull'orlo della guerra con il Paese che la defunta monarchia aveva contribuito a liberare, e che soltanto il desiderio di Talleyrand d'evitare una riconciliazione anti-francese di Stati Uniti e Inghilterra valse ad evitare il peggio. Quel gran pasticcio diplomatico, fatto di minacce, agenti segreti, scandalose richieste di denaro, fu del resto catalogato dalle interpretazioni ufficiali sotto l'etichetta di una manovra del partito federalista americano. E ben presto sarà offuscato dall'accordo che consentirà alla giovane America di Jefferson, con l'acquisto della Louisiana per sessanta milioni di franchi (otto cents all'ettaro, calcolarono gli americani sbalorditi da quel gigantesco affare così a buon mercato), di raddoppiare d'un colpo la sua superficie e lanciarsi verso i grandi spazi dell'Ovest. Gli aspetti « positivi » delle relazioni America-Francia nell'epoca incentrata sulle due rivoluzioni occupano, com'è naturale, un posto d'onore nella mostra che apre a Parigi le celebrazioni bicentenarie. La stessa scelta dei due personaggi-chiave dell'esposizione, Franklin e Jefferson, cade su due uomini che per tanta parte della loro personalità e della loro vita furono legati alla Francia. Entrambi di cultura tipicamente settecentesca, quindi in gTande parte debitrice ai testi dei philosophes, entrambi, Jefferson dopo Franklin, lungamente rappresentanti del loro Paese a Parigi, entrambi eletti all'Accademia francese delle scienze. Più neutro Franklin, nei suoi rapporti con la realtà francese, oggetto di curiosità, simpatia, e anche di una singolare gelosia da parte di Luigi XVI. Più addentro Jefferson, capofila della democrazia americana vecchio stile, nello spirito repubblicano parigino, contro i sospetti e le paure dei conservatori federalisti. Si è cercato di attribuire un significato di radicalismo sociale, arrivando all'accostamento ccn Saint-Just, alla nota correzione apportata da Jefferson al testo della Dichia¬ razione d'indipendenza. Dove si parla dei « diritti inalienabili » attribuiti da Dio agli uomini, si citavano nel progetto originario « la vita, la libertà, la proprietà ». Jefferson lasciò la vita e la libertà, ma tolse la proprietà sostituendola con « il perseguimento della felicità ». E' vero che Saint-Just parlava di «perfezione della felicità» come punto d'arrivo della rivoluzione, ma è anche vero che ben diverso è il ruolo della proprietà, il suo significato politico e sociale, in una Francia già relativamente gremita e appena uscita dal feudalesimo e in un'America dalla disponibilità di terre praticamente illimitata. La correzione di Jefferson sembra più dettata da una visione pratica delle cose, da un intelligente adeguamento delle parole d'ordine dell'Europa progressiva ad una realtà assolutamente originale, che da un rifiuto dottrinario del concetto di proprietà. La sua attività di presidente degli Stati Uniti, del resto, dimostrerà fino in fondo i limiti della democrazia jeffersoniana. Due uomini, comunque, che rappresentarono il primo ponte fra America e Francia. La mostra sul « Mondo di Franklin e Jefferson », allestita al Grand Palais, vive anche di questo, e non a caso presenta accanto alla documentazione di origine americana quella che proviene dagli archivi storici francesi. Come il testo del trattato di alleanza che il 6 febbraio 1778 l'inviato americano Franklin e il ministro degli Esteri di Luigi XVI, Vergennes, firmarono a Versailles, e che sarà la base dell'intervento del corpo di spedizione francese, dopo gli entusiasti volontari come La Fayette, nella guerra d'indipendenza. La mostra copre un arco di centovent'anni, dal 1706, anno della nascita di Franklin, al 1826, anno della morte di Jefferson. Fra i due estremi di quel periodo, si passa da una realtà coloniale ancora senza problemi ad un Paese già ricco e forte, già incamminato verso il destino di una grande potenza. Dei due personaggi principali vediamo al Grand Palais le singolari testimonianze di vita: gli apparecchi delle esperienze che portarono Franklin all'invenzione del parafulmine («Strappò la folgore ai cieli e lo scettro ai tiranni», si dirà di lui); i disegni dell'« architetto » Jefferson e gli utensili di Jefferson agricoltore. E le testimonianze di altre vite, di altri uomini che fecero la rivoluzione americana, da Washington, questo ufficiale così « inglese » che sconfisse gli eserciti di Sua Maestà, a Sam Adams, il più radicale dei ribelli della Nuova Inghilterra, a Hamilton, Madison e Jay, i « revisionisti » che si richiamavano al federalismo, al teorico inglese Tom Paine, che sedette alla Convenzione nazionale. Ed ecco la nascita dei tre documenti che furono il libro sacro della rivoluzione: la Dichiarazione d'indipendenza, la Costituzione, e quel Bill of rights che è racchiuso nei primi dieci emendamenti al testo costituzionale. Ed ecco lo sfondo spaziale dell'America giovane,, utile per comprendere l'originalità di quegli svolgimenti: le esplorazioni nello sterminato Ovest, gli oggetti d'uso delle popolazioni indiane, il magnifico bisonte imbalsamato, le grandi pianure e i loro abitanti visti da attenti nàifs. La mostra è efficace e suggestiva, ma non l'avrebbe certo danneggiata una maggiore penetrazione nei conflitti di uomini e di idee che caratterizzarono sia il processo d'indipendenza, sia i primi passi politici, interni e diplomatici, del nuovo Stato. Dopo Parigi, la mostra andrà a Varsavia (omaggio a Kosciuszko e Pulaski) e a Londra (omaggio al duro nemico di due secoli fa). Quindi approderà agli Stati Uniti, a New York, Chicago, San Francisco: e sarà il 1976, anno del Bìcentennial. Alfredo Venturi

Persone citate: Danton, Luigi Xvi, Quinta Repubblica, Tom Paine