Mille e una Cuba

Mille e una Cuba VERSO LA SECONDA RIVOLUZIONE Mille e una Cuba L'Avana è un contrasto continuo tra passato e presente, austerità marxista ed estro latino-americano - Ma il clima d'assedio è finito, si chiude il periodo del ribellismo (Dal nostro inviato speciale) L'Avana, marzo. Dove i due stanzoni s'incontrano, formando una L, s'alza, visibile anche alle ooposte estremità, un palcoscenico tappezzato di manifesti rivoluzionari. Al pianoforte, un vecchietto strimpella una celebre «trova» di Sindo Garay, «Elvira». Seguendone il ritmo, centinaia di uomini e donne scamiciati arrotolano le foglie dorate di tabacco. Altrove è inverno, ma a Cuba, «la perla dei Caraibi», il termometro segna più di 30 gradi. Dagli enormi ventilatori appesi al soffitto, soffi d'aria giungono sulle schiene sudate. «La fabbricazione dei sigari, mi dice Natalio Rodriguez, che m'accompagna, è un'arte che non cambia mai». Siamo alla Hupmann, dove da oltre un secolo sì producono «Habana» pregiati. Nel reparto automatico, ogni macchina compie il lavoro di 27 operai. «Ma qui il sigaro, mi spiega Rodriguez, ha aspetto, profumo, tessuto di qualità inferiore». Un tempo, per lavorare in una ditta tanto prestigiosa, bisognava corrompere i direttori, oggi esiste una scuola. Rodriguez mi indica una stupenda «mutata acinada» (sangue misto negro e cinese): «Ha imparato in quattro mesi soltanto» dichiara. Uscendo, m'accorgo che il vecchietto s'è spostato dal pianoforte a un leggìo, e chino su Granma, il quotidiano del partito, commenta un discorso di Castro. «E' un personaggio che esiste da sempre, conclude Rodriguez. Il lavoro è sfibrante, deve intrattenere ed educare gli operai». E' sera, e «la Rampa», la ventitreesima strada che dal lungomare o Malecon sale verso l'albergo Habana Libre (già Hilton), si riempie di vistose ragazze in minigonna, le «rampitas». Ci sono code interminabili davanti al cinema dove si proietta Il padrino, davanti ai ristoranti dove si pagano 5 mila lire a bistecca, e più oltre davanti alle «posadas» dove, per la metà, le coppiette possono affittare una stanza per tre ore. La folla è poveramente vestita e il traffico ordinato: li sorvegliano entrambi, sulle loro moto Guzzi, gli agenti della stradale, soprannominati «cavallitos», cavallette, per via dell'uniforme verde. Al Capocabana, riaperto da non molto, dopolavoristi e stranieri guardano la rivista Le mille e una notte, a prezzi degni del «Lido» di Parigi e del «Rainbow Room» di New York. Stelline seminude e comici attempati si alternano alla ribalta nello stile di Abbe Lane e di Xavier Cugat. Scendo verso la città vecchia, coi suoi meravigliosi palazzi e cortili spagnoli, le sue «calles» strette, i suoi muri cadenti, le sue abitazioni povere ma ordinate. A «La Floridita», dove Hemingway beveva il « Daiquiri», c'è un busto dello scrittore, con la dedica «Al premio Nobel della letteratura, nostro amico». Vado ai grandi magazzini «La Epoca» e «Galiano» di Avenida Italia, un tardo pomeriggio, mentre la gente, appena uscita dagli uffici e dalle fabbriche, s'affretta alle compere. Sotto i «murales» che esaltano la liberazione degli schiavi nell'Ottocento, i banchi appaiono spogli. Gli articoli sono quasi tutti in «venta de groupo» (razionati), e un paio di scarpe da donna e una camicia da uomo costano 5 pesos (4500 lire) ciascuno. Vedo in «venta libre» una pentola da cucina e un televisore, vengono rispettivamente 45 e 650 pesos, 40 mila e 585 mila lire. Il salario medio mensile è di 150 pesos, 135 mila lire. Ai banchi dei generi commestibili, c'è ressa. Donne coi bigodini di cartone, fatti in casa, attendono pazientemente, la tessera in mano. Ogni cubano ha diritto a quindici uova (6 centavos o 54 lire l'uno) e sei litri di latte (20 centavos o 180 lire il litro) al mese; mezzo chilo di carne e due pacchetti di sigarette alla settimana; e così via. Ma la mensa a mezzodì è gratis per tutti quelli che lavorano o studiano; i bambini e i vecchi ricevono in dono un litro di latte al giorno; il pesce si trova dovunque e a buon prezzo. Una signora anziana mi sorride: «Siamo a centocinquanta chilometri dagli Stati Uniti e a centocinquantamila leghe dal consumismo», mi dice. «Ma il peggio è passato. Questa tessera, e me la fa toccare, diventa sempre più sottile». Ignacio Pasqual crede nel « plustrabajo para la vivienda », cioè nello straordinario come soluzione della crisi edilizia. A soli trent'anni, è l'amministratore del massimo progetto residenziale dell'Avana-Alamar, una città giardino che sta sorgendo sul mare, e nel 1982 avrà 150 mila abitanti. Bacchetta in pugno, mi illustra sul plastico i pregi del nuovo sistema. « Ogni ufficio e fabbrica ci manda volontari, i tecnici e gli operai di cui può fare a meno. I compagni s'addossano il loro lavoro, essi conservano la paga, e noi li trasformiamo in carpentieri e muratori. In 33, formano una "microbrigada": 19 sono addetti alle abitazioni, gli altri alle infrastrutture sociali ». Mi racconta Ignacio Pasqual che l'idea dei « microbrìgadisti » è nata da una discussione tra Castro e un gruppo di donne disperate. All'Avana ci sono quarantamila alloggi inabitabili o pericolanti, si sta anche in androni o sottoscala adattati come capita. « Qui » dichiara con orgoglio l'amministratore di Alamar « si vive all'europea. Una famiglia di sette persone dispone del bagno, quattro stanze da letto, l'ingresso, il salone e la cucina. In tutto, sono centoquattro metri quadrati, e a Mosca e Tokyo ne concedono nove per persona ». Dal tetto del palazzo più alto, m'indica le piscine, le scuole, gli ospedali. E' una sinfonia di colori e forme d'avanguardia: « Siamo già in 17 mila, paghiamo d'affitto un decimo dello stipendio, e l'assegnazione è decisa dalle assemblee di fabbrica ». L'Avana è tutta così, un contrasto continuo ira passato e presente, austerità marxista ed estro latinoamericano, piani economici ed improvvisazione. Il « Capri », dove alloggio, ha mantenuto il lusso decadente dell'ex-proprietario, l'attore George Raft: ma manca l'acqua calda e hanno portato via le docce. Gli stolidi grattacieli del centro e il pomposo sobborgo di Marianao ricordano la Miami degli Anni Cinquanta: però cartelloni d'arte « pop » esortano la popolazione a edificare il socialismo. Sulla spiaggia di Jibacoa le scritte sono in inglese, francese e tedesco: e tuttavia il porto brulica di mercantili sovietici. « Questa » mi dice l'ospite occidentale « è insieme lo specchio retrovisore e la sfera di cristallo della nazione: riflette ciò che è stata fino a ieri, e anticipa quello che sarà domani ». Mi riferisce del periodo in cui requisivano le « Cadillac » degli esuli per adibirle al trasporto pubblico, e pretendevano che le donne le guidassero; e di quello in cui i primi turisti canadesi davano la caccia ai più strani mezzi di locomozione come a opere di antiquariato. Oggi, tassisti in uniforme guidano eleganti «Chevrolets» azzurre, la polizia gira sulle Alfa Romeo; e per 5000 pesos, 4 milioni 500 mila lire, si possono acquistare a rate le svelte Fiat « Zigulì » o « Argentina », senza interessi, con credito statale. Da qualche mese, a Cuba le cose cambiano in fretta, inaspettatamente. « Che cosa pensa la gente? » chiedo all'economista Alfredo Lopez. Siamo all'U¬ mica », a « producir mas y mejor in menos tiempos ». Il COr, il comitato di difesa della rivoluzione, svolge compiti non più politici ma civili, mobilita le masse non per la guerriglia ma per il « desarrollo », lo sviluppo agricolo e industriale. I sacrifici volontari, come quello di una libbra di zucchero al mese, sono apprezzati, nelle parole di Castro, « perché significano un'altra fabbrica tessile all'anno, sei metri quadrati di stoffa in più per persona ». Persino la prassi ideologica è oggetto di discussioni con la base, non è somministrata come dogma. « All'Avana » scrive Le Monde « s'intravede la luce in fondo al tunnel ». Sono passati sedici anni dalla caduta di Batista, quattordici dal tentativo di invasione della Baia dei Porci, quasi tredici dalla crisi missilistica di Kennedy e di Kruscev, quasi otto dalla morte di « Che » Guevara in Bolivia. Il comunismo a Cuba — l'unico del continente americano — s'è ormai consolidato. Il prossimo novembre o dicembre si svolgerà il primo congresso del partito, nel '76 verrà emanata la Costituzione. Così come s'è assestata la società e si rilancia l'economia, s'istituzionalizza lo Stato: è un detto comune che Castro abbia chiuso il periodo romantico e rinunciato a « esportar la revolucion ». Come predire che esito avranno questi sforzi? Come definirli? Un aggiornamento? Una rettifica? La seconda rivoluzione cubana? Gli ostacoli da superare sono enormi e nulla è chiaro. Forse il Paese ha trovato la sua strada al socialismo, caratterizzata da vincoli più forti che non altrove tra i capi e la popolazione, nonostante il problema dei rifugiati negli Usa; illuminata dalla ricerca di un processo democratico, al di là delle manifestazioni repressive; agevolata dalla distanza dall'Urss e dall'appartenenza all'America Latina. Al | teatro all'aperto del grande Parco Lenin, dove la gente trascorre la domenica tra un rodeo e l'acquario, tra gli studi dei pittori e i boschi, Beatrice Marques canta una melodia allusiva: « spiegami perché vuoi lasciarmi - se ti ho dato l'anima ». Ennio Caretto niversità, di fronte a un bicchiere d'aranciata e a un microscopico ma fortissimo caffè. Lopez è il primo a ricevermi in giacca e con la cravatta. « Non si lamenta » mi risponde. « Ha l'indispensabile. Non si è dimenticata che sotto Batista Cuba contava 900 mila analfabeti, 800 mila disoccupati — un terzo della manodopera — 50 mila mendicanti e 20 mila prostitute; che c'erano la mafia, tre televisioni a colori e i monopoli Usa, ma non l'assistenza sanitaria gratuita, le pensioni, che imperversavano il terrore e la corruzione ». « E' un miracolo che siamo sopravvissuti al blocco imposto dagli Stati Uniti» prosegue. « Eravamo rimasti senza niente: senza energia per l'industria, senza medici per i malati, senza trattori per i campi. Ci ha salvato la Russia ». S'interrompe, accende una lampada: «Vede questa luce? viene dal Mar Nero ». Riprende: « Da un paio d'anni, anche a detta delle Nazioni Unite, per quanto riguarda la previdenza sociale siamo in testa all'America Latina. Abbiamo sconfitto la mortalità infantile e la malaria, il razzismo e la sperequazione; le nostre strade sono pulite, tutti sanno leggere e scrivere, e vivono con dignità. Ora possiamo preparare il nostro miracolo economico. Ne possediamo i mezzi. La gente avverte che il Paese è ad una svolta storica ». La sensazione più viva che s'ha a Cuba è questa: che finisca un'epoca e ne incominci un'altra, e i contrasti siano il segno del risveglio. Alla psicosi dell'assedio subentra la disponibilità al dialogo financo con Washington; alla paura, la fiducia. La sigla di Radio l'Avana resta « Aquì Cuba, territorio libero de America »; non ci si reca facilmente all'estero né si recepisce la cultura occidentale: Granma e Juventud rebelde non vengono venduti nelle edicole ma distribuiti nei centri sociali; a notte i riflettori sorvegliano i punti strategici delle spiagge; e i proclami si firmano ancora « revolucionariamente ». Le parole d'ordine sono tuttavia nuove: « partecipazione » e « produttività ». Nelle piazze, sui muri delle case, al cinema si leggono adesso inviti a « llevar al maximo l'eficiencia ecpno-