Per il delitto Tandoy 10 ergastoli ma gli imputati sono tutti liberi di Guido Guidi

Per il delitto Tandoy 10 ergastoli ma gli imputati sono tutti liberi Per il delitto Tandoy 10 ergastoli ma gli imputati sono tutti liberi Roma, 28 febbraio. Ore 17,10: in un'aula all'ultimo piano del vecchio palazzo di Giustizia s'è conclusa la storia giudiziaria che ha avuto come protagonista e vittima l'ex capo della squadra mobile di Agrigento, Cataldo Tandoy, ucciso dalla mafia di Raffadali. La Cassazione ha confermato 10 condanne all'ergastolo e una a 30 anni per l'esecutore materiale del delitto che, sparando, colpi anche uno sventurato studente liceale, Antonino Diamenti. Finalmente: per giungere a questo risultato la giustizia ha avuto bisogno di 15 anni meno un mese. Le condanne, prima o poi, sono arrivate (e in un processo di mafia è già molto), ma gli imputati sono quasi tutti lontani; uno è morto, un paio sono fuggiti quasi certamente negli Stati Uniti, gli altri sono in libertà perché sono trascorsi da tempo i termini massimi previsti per la carcerazione preventiva e arrestarli di nuovo perché scontino le pene non sarà un'impresa facile. Questa storia ha inizio ufficiale la sera del 30 marzo 1960 quando Tandoy, mentre stava rientrando a casa in Viale della Vittoria ad Agrigento sottobraccio alla moglie Leila Motta, fu ucciso da un killer a colpi di pistola. Il commissario era stato trasferito a ftoma nell'agosto 1959 ed era tornato da tre giorni ad Agrigento per una brevissima vacanza. Ma la storia vera era iniziata molto tempo prima: quando a Raffadali la cosca mafiosa, riunitasi in una specie di tribunale, aveva condannato a morte Cataldo Tandoy colpevole di avere raccolto un dossier sulla mafia agrigentina. Prima d'arrivare a queste conclusioni (i termini della situazione, comunque, non sono stati mai ricostruiti con esattezza), però l'indagine puntò su quello che sembrava essere l'aspetto più semplice e più clamoroso della tragedia: il magistrato, di fronte alla certezza, che la moglie di Tandoy tradiva il marito con il dottor Mario La Loggia, direttore dell'ospedale psichiatrico di Agrigento, pensò subito al delitto passionale. La storia era troppo bella per sfuggire al suo fascino: lui aveva assoldato un killer per eliminare il marito che, trasferendosi a Roma, gli avrebbe praticamente impedito di incontrarsi con l'amante. Fu soltanto dopo molti mesi che si arrivò a stabilire che la tesi dell'omicidio per amore non aveva alcun fondamento: sulla morte di Cataldo Tandoy la infedeltà di Leila Motta non aveva avuto alcuna influenza anche perché i giudici della corte d'assise, alcuni anni dopo, accertarono che il commissario di p.s. non ignorava affatto d'essere tradito dalla moglie e che, comunque, i due amanti (Leila e il professor La Loggia) avevano stabilito di «incontrarsi a Roma» nel caso di trasferimento. Cataldo Tandoy venne ucciso per altri motivi. Era arrivato ad Agrigento nell'immediato dopoguerra e vi era rimasto per 14 anni e aveva cercato di contemperare il proprio dovere con alcuni «interessi personali». La causale del delitto — hanno accertato i giudici — è da ricercarsi nella vita del commissario, nella sua ingerenza nella vendita del feudo dei fratelli Caramazza, nei rapporti con la mafia di Raffadali, nei mo- La Cassazione ha confermato le condanne - L'ex capo della squadra mobile di Agrigento venne eliminato nel 1960 dalla mafia di Raffadali La vedova Tandoy tivi di interesse che lo legavano ad alcuni componenti della consorteria e, nella piena consapevolezza che fossero i mandanti della sopressione di un mafioso, Antonino Galvano e della organizzazione mafiosa nell'Agrigentino. Trasferito a Roma, Tandoy fece sapere che avrebbe parlato e automaticamente firmò la propria condanna a morte. Tra l'altro, non si è mai trovato un dossier nel quale aveva raccolto tutti gli elementi interessanti sulla mafia e sui suoi delitti. Quando Tandoy tornò ad Agrigento venne ucciso: così come pochi giorni prima era stato deciso dal tribunale dei mafiosi. Chi sono i responsabili? Tra molti personaggi di nessun rilievo (un sarto, un cantoniere dell'Anas, un carrettiere), una figura interessante di cui si è occupata anche la commissione antimafia: Vincenzo Di Carlo, insegnante elementare e giudice concilia¬ tore di Raffadali, segretario democristiano di Raffadali, notoriamente mafioso. I giudici hanno stabilito che fu uno dei mandanti nell'omicidio che — aggiunsero nella sentenza — era stato deciso più in alto da qualcuno senza il cui consenso la deliberazione di uccidere un commissario di p.s. non sarebbe mai stata adottata ed eseguita. «Non era mai avvenuto prima di allora che un funzionario di polizia o un ufficiale dei carabinieri o un magistrato o un giornalista venisse colpito dalla mafia». Quasi otto anni furono necessari per completare le indagini. Finalmente, il primo processo a Lecce, dove fu celebrato per legittima suspicione: otto condanne all'ergastolo, una a 30 anni, nove a pene oscillanti fra un massimo di 23 anni e un minimo di quasi cinque anni. Era il 23 luglio 1968 quando fu pronunciata la sentenza della corte d'assise. Da allora sono trascorsi altri sei anni prima di arrivare al processo in corte d'assise d'appello, sempre a Lecce, dove furono confermate tutte le condanne all'ergastolo (otto) ma due imputati che, in precedenza erano stati ritenuti minori, furono ritenuti meritevoli della massima pena. Questo avvenne la sera del 26 gennaio 1974: un anno dopo, oggi, la sentenza della Cassazione. Dieci ergastoli: Luigi e Santo Librici, Vincenzo Di Carlo, Giuseppe Galvano, Giuseppe Terrazzino, Giuseppe Casa, Giovanni Scifo, Vincenzo Alongi, Antonino Bartolomeo e Giuseppe Lattuga che, però, nel frattempo è morto. Una condanna a 30 anni: Giuseppe Boeri, il killer che, assoldato dalla mafia per uccidere Cataldo Tandoy, colpì anche uno studente che, casualmente, stava parlando con alcuni amici in viale della Vittoria. Altre nove condanne a pene minori. Guido Guidi Conclusa dopo 15 anni la storia giudiziaria