Interrogato oggi il fascista che prese armi da Bertoli di Umberto Zanatta

Interrogato oggi il fascista che prese armi da Bertoli Il processo per la strage alla questura di Milano Interrogato oggi il fascista che prese armi da Bertoli Tra i testi odierni anche l'ex sindacalista della Cisnal che, la sera prima dell'attentato, parlò con il terrorista - La vicenda del passaporto usato per tornare in Italia (Dal nostro inviato speciale) Milano, 23 febbraio. Domani mattina quinta udienza del processo a Gianfranco Bertoli, il terrorista che, la mattina del 17 maggio di due anni fa, scagliò una bomba davanti alla questura di Milano uccidendo quattro persone e ferendone una quarantina. (Il Bertoli, in altra istruttoria, è anche accusato, come l'ex capo del Sid, generale Vito Miceli, di appartenere all'organizzazione eversiva «Rosa dei venti»). Lo scontro sarà fra la linea del difensore, l'avv. Dionisio Mesina, il quale cerca di convincere i giudici che Bertoli è un « anarchico individualista » ed ha agito da solo, e quella del pubblico ministero, Riccardelli, del giudice istruttore Lombardi e di buona parte degli avvocati di parte civile, i quali vogliono dimostrale che Gianfranco Bertoli ha avuto dei complici, che il suo non è stato un gesto isolato, ma un momento della « strategia della tensione ». « Volevo uccidere il ministro dell'Interno Rumor — ha sempre sostenuto l'imputato — e tutte le autorità, gli alti ufficiali che stavano commemorando Calabresi, il boia di Pinelli ». Ma la morte di Rumor era appunto il segnale che i « rosaventisti » attendevano per iniziare il golpe, come ha confessato il 12 febbraio al giudice Lombardi il dott. Porta Casucci, il medico di Ortonovo che, nel novembre di due anni fa, svelò all'autorità giudiziaria l'esistenza della « Rosa dei venti ». Sul banco dei testimoni domani mattina prendreà posto il fascista Rodolfo Morsi, l'ex sindacalista della Cisnal, che Gianfranco Bertoli, con la bomba in tasca, andò a trovare la sera precedente all'attentato di via Fatebenefratelli. La sera del 16 maggio, Gianfranco Bertoli apparve stravolto al Mcrsi ed alla moglie. Parlava di attentati, di bombe. « // Bertoli — è scritto nella sentenza di rinvio a giudizio del giudice istruttore — fece capire di essere stato costretto a lasciare Israele. Aveva timore di essere seguito, pedinato. Si sentiva braccalo essendo invischiato in cose da cui non poteva uscire. Si sentiva braccato per quello che poteva essere emerso a sua insaputa dopo l'imputazione di tentato omicidio », che gli era stata fatta alla fine del 1970 dalla polizia di Padova. Rodolfo Mersi ha sempre sostenuto che Gianfranco Bertoli non può aver agito da solo. Vedremo cosa dirà domani mattina ai giudici. Ma Rodolfo Mcrsi, confidente della polizia (e il Bertoli lo sapeva), dovrà anche spiegare alcuni fatti che hanno destato perplessità nel giudice istruttore. « Innanzitutto ha sorpreso — ha scritto il magistrato a questo proposito — che mentre egli era ancora al ristorante "Alfio" e seppe della esplosione immediatamente comprese chi ne era l'autore ». Poco oltre, nella sentenza del dott. Lombardi, si legge: « Ma c'è un altro fatto che desta maggiori perplessità ». Il 24 maggio, un cameriere disse al pubblico ministero che, la sera precedente all'attentato, «il Mersi, verso le 25. fece una telefonata dicendo: "Pronto dottore, è già arrivato il treno, io sono a casa tra 55-40 minuti ». A suo tempo, il sindacalista della Cisnal spiegò i due fatti dicendo d'aver « intuito » che l'attentatore era il Bertoli proprio per i discorsi tenuti dal terrorista la sera prima a casa sua, e che egli abitualmente chiama « scherzosamente con la parola " dottore " o altre qualifiche le persone, anche la moglie ». Su questi e su altri particolari domani mattina Rodolfo Mcrsi sarà lungamente interrogato dagli avvocati di parte civile. Un altro leste importante sarà certo Sortcni, estremista di destra, un pregiudicato veneto che nel 1955 acquistò armi dal Bertoli per conto di un « Pronte anticomunista » sulla cui storia passata e presente domani si cercherà di far luce. Un altro punto oscuro è la storia del passaporto col quale Bertoli riuscì, prima, ad espatriare in Svizzera, poi in Francia, ad andare in Israele e tornare, poi, in Italia dopo due anni per compiere la strage. Per meglio comprendere la vicenda è necessario tornare all'ottobre del '70 quando il terrorista fuggì dall'« Oasi » di Padova. Pochi giorni dopo, un confidente della polizia, Franco Tommasoni, ora latitante, definito già allora « pericoloso » dal commissario [uliano, di Padova (colui che scoprì le piste nere, accusando Freda e Ventura, ma non fu creduto) denunciò alla polizia Bertoli e un suo amico, il Faccin, come autori di un tentato omicidio a scopo di rapina. Ricercato per omicidio, Bertoli si nascose a Milano dove riuscì a procurarsi un passaporto rubato. La « fabbricazione » del documento fu seguita punto per punto dal commissario della Politica, Calabresi, che — come ha riferito al giudice istruttore un suo collaboratore di quei tempi, il brigadiere Pancssa — aveva anche la foto che il Bertoli doveva applicare al documento. In seguito, ha sempre raccontato il Panessa, il commissario Calabresi gli disse anche che Bertoli era andato in Svizzera. Nel '72, a Padova, si svolse il processo per la rapina. Faccin venne condannato. Bertoli assolto perché Franco Tommasoni, amico di Freda, ritrattò le accuse contro di lui. Bertoli era in Israele e nessuno stranamente — tenendo conto che riceveva lettere da Mestre — gli comunicò quest'assoluzione, come dimostra anche il fatto che, sempre con questo passaporto maldestramente falsificato e segnalato alla polizia, rientrò in Italia per compiere la strage, convinto di essere ancora ricercato per il tentato omicidio di Padova. Sono episodi misteriosi, questi, che pongono molti inquietanti interrogativi ai quali nel processo in corso si tenterà di dare una risposta. Anche perché, sempre nell'interrogatorio al quale è stato sottoposto il 13 febbraio, il medico « rosavenlista » Porta Casucci ha spiegato al giudice Lombardi che una delle tecniche usate da chi dirigeva la « Rosa dei venti » era di coinvolgere i nuovi « assunti » in imprese criminose per poi tenerli in pugno con l'arma del ricatto e costringerli a qualsiasi impresa. Sono anche forse gli interrogativi ai quali il giudice Lombardi ha già trovato una risposta nell'inchiesta stralcio in cui Bertoli è accusato con il « rosaventista » Eugenio Rizzato, il fascista di Padova ex repubblichino, di concorso in strage. Umberto Zanatta