Sforza, conte dimenticato

Sforza, conte dimenticato taccuino dei ricordi Sforza, conte dimenticato Avevamo ospite a cena, come il martedì o il venerdì d'ogni settimana, la nostra insegnante di francese, Mademoiselle Lucie Le Dieu: la quale poco prima s'era rivolta a mio padre sollecitandone l'intervento per il disbrigo di non so più quale pratica, di competenza, essenzialmente, delle autorità italiane in Francia. E papà, entrando, si affrettò a consegnar tutto lieto a Mademoiselle una lettera autografa. Diceva così: « Ci vado, ma con poca voglia... Sarò, invece, lietissimo di far l'ambasciatore di Mademoiselle Lucie Le Dieu ». La lettera era di Carlo Sforza, che il governo Facta aveva testé nominato ambasciatore a Parigi. Fu, credo, la prima volta ch'ebbi non la notizia del nome di Carlo Sforza, ma il senso immediato, quasi visivo, dell'uomo: e direi che data da allora la sua presenza nella mia memoria e nella mia vita. Lettore precocissimo di giornali, che c'invadevano quotidianamente la casa, non ignoravo, naturalmente, che Sforza aveva negoziato il trattato di Rapallo; né ignoravo il putiferio parlamentare del giugno 1921, causa od occasione non ultima della caduta dell'ultimo gabinetto Giolitti, quando il ministro degli Esteri, levatosi dal suo banco per una pertinente (od impertinente...) risposta all'on. Salandra, non si astenne dal ricordar in tutte lettere al « Presidente dell'Intervento » che l'Italia aveva violato, aveva voluto violare, il Patto di Londra: il quale attribuiva Fiume alla Croazia. Ma questo Sforza politico e ministro era qualcosa, per me, di lontano e quasi di estraneo, ciò di cui si leggeva nei giornali, un uomo di Roma: non una persona viva, un essere umano. Quale era appunto lo Sforza che imparavo a conoscere quando e in quanto s'impegnava ad essere l'ambasciatore di Mademoiselle Le Dieu; che, dunque, indirettamente quasi diveniva una persona di famiglia, entrava in famiglia. Ebbene, questa umana cortesia e gentilezza mi pare, dopo più di mezzo secolo, dopo un ventennio dalla morte di Sforza, il tratto più tipico e significativo dell'uomo. Cortesia non già nel senso di concedere o distribuire favori, non già nel senso di voler accattare consensi, non già nel senso di voler guadagnarsi credito e popolarità col fare « bella figura »: anzi, nel senso di umanità, di gentilhom merle, d'una dote pressoché naturale o coltivata e perfezionata da Sforza nell'ambiente domestico, nella frequentazione di uomini di cultura. Un qualche cosa frequente solo a cavaliere dei due secoli, quando Sforza si formò e durò in lui, per lui, tutta la vita. Non la politica e nemmeno la diplomazia, il suo primo e più vero mestiere, attrassero, infatti, lo Sforza agli inizii. La sua famiglia non era di politici o diplomatici; nemmeno, in ultima analisi, di aristocratici e di «signori»: ma di uomini di cultura. Suo padre, allievo in Pisa di Alessandro D'Ancona, fu archivista principe e predecessore del Luzio alla direzione dell'Archivio di Stato in Torino: ma era, altrimenti dalla maggior parte dei suoi colleghi, uomo di varia erudizione, di elegante stile letterario, di alto senso umano, di espertissima attività ed arte biografica. Né quindi per mero caso, o dovere d'ufficio o mestiere erudito, si trovò a curar l'edizione dell'epistolario, degli inediti di Alessandro Manzoni: i cui famigliari superstiti, la figlia e il genero Giovanbattista Giorgini e la loro figlia Matilde, poi sposa d'uno scienziato italo-forestiero, Roberto Schifi, erano, oltre che amici, suoi vicini di casa a Montignoso, quasi al confine tra Versilia e Lunigiana: dove, dunque, le virtù e le tradizioni della Toscana si mescolano, e si perfezionano nel mescolamento, con la virtù e le tradizioni della Liguria (e, nel caso specifico, con le virtù e le tradizioni della Lombardia di don Lisander). * ★ Pochi mesi dopo il suo cortese impegno d'essere a Parigi l'ambasciatore della nostra insegnante, Carlo Sforza dava all'Italia e all'Europa, quasi solo, quasi divinando e deprecando il tristo avvenire della Penisola, un esempio unico ed un'insigne, indimenticata lezione di coraggio morale: gettando in faccia t Mussolini le proprie dimissioni, il suo diniego fermissimo a servire, a rappresentare più oltre, quasi coonestando l'accaduto con la sua presenza e col suo consenso, un Paese non libero, un Paese vittima d'un colpo di Stato compiuto con l'acquiescenza fedifraga, se non addirittura con la complicità, del sovrano (e Carlo Sforza, collare dell'Annunziata in quanto negoziatore del trattato di Rapallo, poteva dirsene il « cugino »...). Tutti i pavidi, gli accomodanti, i « possibilisti », fra i cui ranghi Prezzolini si duole di non poter annoverare Giovanni Amendola, gli diedero addosso, gridarono che aveva reso impossibile il compromesso, la normalizzazione. Avevano torto sul piano morale; né, quindi, stupisce che gli eventi abbiano tosto provveduto a dar loro torto sul piano storico. Sforza, che non divideva il « moralismo » di Amendola, non avrà forse neppur condiviso il risoluto disdegno e disgusto di Bissolati a veder Mussolini capeggiare alla Scala il tumulto del gennaio 1919 contro lo jugoslavofilo « rinunciatario »: «quell'uomo, no». Ma certo sentì nel suo intimo, e volle intimar pubblicamente con lo « scandalo » delle dimissioni immediate, che «quell'uomo, no»: non serviva né alla pacificazione d'Italia né alla soluzione dei suoi problemi né al superamento delle sua crisi sociale, nazionale e internazionale. Non avrebbe potuto avviar il Paese che sulle vie della dittatura e del sangue, travolgendovi infine se stesso e la monarchia. Un'alta coerenza storica e umana lega, perciò, i due maggiori ttti e momenti dell'attività antifascista di Carlo Sforza all'inizio e al termine (t quello ch'egli avvertì non poter non essere il termine) della dittatura: le dimissioni da ambasciatore il 28 ottobre del '22, il messaggio al re la vigilia del 10 giugno 1940, scongiurando, egli ormai convinto repubblicano, l'imperiale « cugino » a guarentire all'Italia, se non ancora la libertà, almeno, e per allora, la neutralità, donde sarebbe altresì scaturito un fiotto nuovo di gratitudine, una forza nuova della monarchia, cui non sarebbe quindi probabilmente mancato il perdono del popolo italiano, quasi la riconferma dei plebisciti risorgimentali, un ritorno all'Italia del Piave e dello Statuto albertino. Fra questi due estremi, dopo vario carteggiare diretto e indiretto, dopo varii contatti attraverso numerosi amici comuni, e nella memore gratitudine per l'opera di generosa italianità svolta sempre dall'esule, dal compagno, difensore e testimone dei « fuorusciti » dinanzi all'avversione o alla paura di tutti i « benpensanti » d'Europa, ebbe luogo il mio primo incontro con Sforza. Lo rivedo alto, fiero, elegante, ma con gli occhi rossi e la voce strozzata, uscir, nella casa di rue Notre-Dame-des-Champs, dalla stanza di Amelia Rosselli, non ancora sepolti al Père-Lachaise i cadaveri di Carlo e Nello assassinati. Sentiva tanto più la tragedia, vorrei qua si dire: la logica e l'orrote della tragedia, in quanto era stato nel giugno 1924 fra i promotori dell'azione insurrezionale per cacciare a furor di popolo Mussolini da Palazzo Chigi, spezzando così quella catena d'iniiiterrotte trame e violenze, il cui ultimo anello era il delitto di Bagnoles-del'Orne. Da allora, e con tanto maggior impegno quanto più maturavano i tempi, nonostante la delusione, forse non inattesa, del nuovo fallimento della monarchia, lavorò per l'Italia, per un'equa e costruttiva soluzione, durante e dopo la guerra, del problema italiano, chiedendo, e invano rivendicando, per la nostra Penisola «i confini di Vittorio Veneto»: ma sempre, come gli suggeriva o comandava il suo Mazzini, guardando oltre la patria alle patrie, oltre l'Italia all'Europa. Era solo, non aveva con sé o dietro di sé un partito, in un Paese che si avviava a partitocrazia; non aveva altra forza che la sua persona, la sua esperienza di antifascista, la sua testimonianza di esule. Né stupisce, quindi, gli fallisse l'ambizione della Presidenza della Repubblica e fosse costantemente precaria la sua medesima posizione di ministro degli Esteri. Ma gli restava l'orgoglio di aver con De Gasperi, a prezzo di sanguinose lacerazioni interiori, di aspri contrasti anche con gli amici più intimi, come il Croce, negoziato quel pur infelicissimo accordo di pace che tuttavia riconduceva l'Italia all'Europa. Non, propriamente, l'opera di un diplomatico, ma il dovere, il servitium, d'un cittadino. « Servire l'Italia, servirla nella pace... ». Piero Treves