DOPO LE VOCI DI SFORTUNA, IL CAPO SOVIETICO E SEMPRE IN SELLA di Paolo Garimberti

DOPO LE VOCI DI SFORTUNA, IL CAPO SOVIETICO E SEMPRE IN SELLA DOPO LE VOCI DI SFORTUNA, IL CAPO SOVIETICO E SEMPRE IN SELLA Questo mondo secondo Breznev La distensione con l'America non si discute, ma si tende a correggerla e rinegoziarla: la caduta di Nixon, la rinuncia agli accordi commerciali, la spregiudicata politica di Kissinger in Medio Oriente hanno creato una certa sfiducia - Nei piani di Mosca si apre uno spazio nuovo per l'Europa (Dal nostro corrispondente) Mosca, febbraio. Per sette settimane, gli osservatori di Mosca si sono chiesti quale visione del mondo si dovesse prendere in considerazione per individuare le tendenze della politica estera sovietica nel 1975: sempre quella di Leonid Breznev, oppure quella di Andrej Kirilenko, o di Aleksandr Shelepin, o altre ancora, tante quante potevano essere le verosimili ipotesi di successione? E ci si chiedeva quali potessero essere le differenze tra luna e l'altra, ammesso che differissero davvero. Ma ora che le voci sulla salute fisica del segretario generale del pcus sono state ufficialmente sdrammatizzate dal suo portavoce (« aveva preso soltanto un colpo di freddo »), mentre quelle sulla salute politica sono state smentite dall'indiscutibile autorità con la quale ha condotto in prima persona i negoziati con Harold Wilson, la visione brezneviana del mondo sembra essere ancora quella dominante nell'oligarchia che siede al Cremlino o nel meno sontuoso palazzo del Comitato centrale. D'altra parte, prima ancora che Breznev riapparisse in pubblico, altri autorevoli dirigenti sovietici, rappresentanti diversi centri di potere (Ponomarev l'apparato del partito e la sezione ideologica, Grechko le forze armate, Shelepin la cosiddetta opposizione ombra), si erano sforzati di rassicurare l'Occidente che sull'equazione brezneviana « distanza economica eguale irreversibilità della distensione politica » esiste, nelle alte gerarchie sovietiche, un consenso generalizzato e che le differenze possono essere soltanto sulle linee d'approccio o su variabili specifiche. Gli avvenimenti degli ultimi dodici mesi hanno reso indubbiamente piii cauto questo approccio e hanno aumentato il peso di queste variabili specifiche, sicché la westpolitik di Breznev appare oggi più prudente e al tempo stesso articolata. Rispetto ad un anno fa, il problema nuovo per il Cremlino è quello dei limiti della distensione, che contiene un altro interrogativo: possono esistere tanti tipi di distensione, diversi per forma e contenuto, a seconda degli interlocutori? Il problema dei limiti della distensione si pone soprattutto nei confronti dell'America. La caduta di Nixon e la conclusione del braccio di ferro sul commercio e l'emigrazione ebraica hanno insegnato ai dirigenti sovietici che uno dei maggiori limiti del rapporto di coesistenza con gli Stati Uniti consiste proprio nell'incapacità del Cremlino di prevedere il comportamento di un partner, che — esprimendo un sistema pluralistico, e quindi una continua conflittualità d'interessi — risulta sconcertante e imprevedibile ad un regime anti-dialettico e monolitico quale il russo. La tendenza di Kissinger a condurre un negoziato solitario in Medio Oriente, emarginando l'Unione Sovietica, e la sua arroganza nel- la crisi petrolifera, compresa l'allusione all'impiego della forza che Mosca ha inteso come rivolta soprattutto contro di lei, hanno fatto capire ai dirigenti sovietici che la cooperazione con l'America può avere ben precisi limiti anche sul piano internazionale. Sicché essi s'interrogano ora sull'opportunità di reinterpretare, se non addirittura di rinegoziare, la famosa « carta di Mosca », firmata da Nixon e Breznev nel 1972. Attraverso lo scandalo Watergate e le conseguenti dimissioni di Nixon, la forzata rinuncia sovietica agli accordi commerciali, la crisi mediorientale e quella petrolifera s'è prodotta tra il Cremlino e la Casa Bianca una lacerazione, che le Izvestija non hanno esitato a definire una « crisi di fiducia ». Dunque, se un anno fa la distensione con l'America veniva ipotizzata dal Cremlino come globale, coinvolgendo tutti gli aspetti dei rapporti tra le due superpotenze, oggi si tende a fare qualche distinzione. Se la distensione militare (cioè, soprattutto, la limitazione degli armamenti strategici) viene ancora considerata un obiettivo primario e irrinunciabile, quella politica viene fatta dipendere da circostanze contingenti e la distensione economica, infine, è considerata un obiettivo seco idario e alternativo. Questa degradazione e fram. eri.azione del rappor- to con l'America apre nuovi spazi per l'Europa nei piani sovietici. Ancora sull'onda emotiva del clamoroso ripudio dei favori commerciali americani, la prima reazione sovietica fu di offrire ai tradizionali partners europei nuove e più ampie possibilità di cooperazione, sostituendosi ai businessmen americani, che negli ultimi tre anni sembravano aver fatto della Russia una loro piazza esclusiva. Ma l'offerta all'Europa non può essere considerata soltanto un gesto dispettoso verso l'America, bensì una scelta meditata, che l'Unione Sovietica vede come vantaggiosa per sé e per i Paesi europei. La cooperazione economica con l'Europa occidentale, ha detto Shelepin, « aiuta l'Unione Sovietica a sviluppare ancor più la produzione negli interessi del miglioramento del benessere della popolazione », ma offre ai Paesi dell'Europa occidentale un possibile sbocco alla loro crisi economica attraverso un rilancio della produzione industriale, grazie alle commesse sovietiche, e quindi una riduzione dei disoccupati. Questo messaggio, per quanto schematico e semplicistico, non è privo di allettamenti ed è significativo che Harold Wilson ne abbia fatta propria la seconda parte per giustificare, di fronte alle perplessità di alcuni giornalisti che l'avevano accompagnato a Mosca, l'apertura di una linea di credito d'un miliardo di sterline all'Unione Sovietica. L'offerta sovietica all'Europa è economica (condita anche con un certo sapore di petrolio, visto che l'Urss si proclama ormai il maggiore produttore mondiale), ma sottintende un disegno politico. Essa si propone di correggere le tendenze di Gìscard d'Estaing e di Schmidt, che il Cremlino giudica un po' troppo filoamericani, almeno in rapporto a Pompidou e Brandt, e di bilanciare la strategia kissingeriana della « paura » e dell'« offerta », che mira a legare sempre più strettamente i governi europei all'America. In questa visione sovietica del mondo, la crisi mediorientale appare meno preoccupante e condizionante che in quella di Kissinger, anche perché l'Unione Sovietica non ha alcun assillo petrolifero, né deve rassicurare alleati minacciati da un altro embargo o da nuovi aumenti di prezzo del greggio. La crisi mediorientale può essere per il Cremlino un fattore di disturbo per un ordinato sviluppo della distensione politica con l'America o per una silenziosa espansione sovietica nella regione mediterranea, ma può essere anche (e piuttosto come tale viene considerata) un'utile pedina tattica da giuocare sulla scacchiera dei rapporti con gli Stati Uniti e con i Paesi occidentali. C'è invece nella visione sovietica un fattore potenziale di crisi, che manca in quella del segretario di Stato americano, ed è la Cina. Ma la disputa con Pechino sembra essersi stabilizzata su un rapporto di conflittualità politico-ideologica permanente, che non minaccia però di degenerare in una conflittualità politico-militare a breve termine: almeno finché la potenza d'attacco e di risposta sovietica sarà così superiore a quella cinese. In altre parole, la Cina rappresenta un fattore di crisi per l'Unione Sovietica finché quest'ultima si considera un'ideologia, ma cessa di esserlo quando si considera, pragmaticamente, una potenza globale. Paolo Garimberti Mosca. Una indiscutibile autorità: Breznev al pranzo in onore del premier britannico Wilson, il 14 febbraio scorso (Telefoto Ansa)