Una rosa nel vetriolo di Camilla Cederna

Una rosa nel vetriolo TESTIMONI DEI NOSTRI ANNI: LA CEDERNA Una rosa nel vetriolo "Un'intervista a me? Già sento dire: ancora la solita Camilla" re" di una certa Italia si erano abituate ai suoi graffi, ai suoi in carcere - Il suo impegno giornalistico dopo gli attentati del Dai salotti alle corti d'assise - Le "signoritratti - Sedute spiritiche di Degli Occhi 1969 - L'amicizia con Pietro Valpreda (Dal nostro inviato speciale) Milano, febbraio. « Lo sai cosa fa in questo momento Adamo Degli Occhi, l'avvocato delle trame nere, il rappresentante della maggioranza silenziosa, quello che sfilava per le strade di Milano drappeggiato nel tricolore? Nelle carceri di Brescia forma una "catena" di mani attorno a un tavolino, con quel tal Fumagalli e altri compari. Invoca gli spiriti. Raramente gli risponde Hitler, ma sì. Di solito una voce che si dice Anita Garibaldi: lo consola, gli consiglia di starsene in pace. Adamo di nome e di fatto: non avendo il tricolore, pare si aggiri nudo dentro una coperta carceraria. Raccontale tu, queste cose, per favore ». E Camilla Cederna ride. Sottile come una spada, l'angolo aristocratico della bocca che frena l'amaro divertimento. Subito dopo sospira: « Un'intervista a me? Come se io la facessi a te. E sento già dire: ancora questa Camilla?, ancora la solita Camilla? ». Invece non è mai stala la « solita ». Certo: le « signore » di una certa Milano, di una certa Italia, di un determinato e ormai evanescente «jet set» si erano abituate ai suoi graffi, ai suoi ritratti. Fin dai tempi in cui un noto e spigliato riccone meneghino incontrò la sua fresca amante in Montenapoleone: costei sloggiava la ricompensa d'un favoloso visone, ma al fianco di un ragazzo che subito determinò nel «Quasi legittimo» uno sfogo di rabbia. Afferrò il pelo milionario, lo scaraventò su una lurida macchina in sosta, dandosi a strofinare con rauchi vocii: « Tel chi adess el to strascett! ». Dai salotti bene, Camilla è approdata ai tribunali, alle corti d'assise di Catanzaro e Milano. Il suo impegno giornalistico si è fatto puntuto, talora obbligatoriamente grigio. Ma questo suo « passaggio a nord-est » ha una data precisa, non dipende da umori vaghi. « Le bombe del '69. Quando la nostra sostanza civile ha tremato, quando la strage ci ha risvegliati tutti quanti. Sono sempre stata una moralista lombarda, tutti i Cederna lo sono. Ero una moralista anche quando mi si prendeva per una farfalla della mondanità. Ma si rallegravano le cretine, non la Callas, che temeva i miei interventi su di lei. Le bombe del '69: hanno strappato dalle nuvole e dalle poltrone, ci hanno obbligato a un lavoro crudo, meticoloso, complesso ». Viene in mente il grido volterriano, «non voglio morire prima d'aver servito ». Camilla socchiude gli occhi, gracilissima e indomabile, nel chiarore della sua minuscola casa vicino all'Arena. Anche un gattino bianco e grigio, allungato sulla costola del divano, socchiude gli occhi. Cadde tempo fa dal quinto piano, fu in pratica miracolato da un'infinita serie di interventi veterinarii. « Sembra che non se lo ricordi, lui », fa Camilla con la sua voce roca: « Ma io amo guardarlo. Perché lui mi fissa come mia madre, con quelle sue pupille di rimprovero ». Dobbiamo parlare di tante cose, del mondo capovolto, dell'ambiguità che non si rifugia nella morale e ne- gli atteggiamenti ma domina nei fatti, nelle procedure che ci riguardano. Si tratti d'un libro o di Bertoli, che ha lanciato la bomba davanti alla questura in via Fatebenefratelli e ora « recita » in corte d'assise a Milano. Camilla Cederna segue le udienze del processo, redige il ritratto dell'attentatore, un esemplare graffito di questa ambiguità: « Il volto folle ma consapevole, da finto profeta ubriaco che però sa tutto di se stesso. Si muove come un attore, e il presidente della corte non lo amministra al meglio, non lo lascia parlare. Un avvocato che lo conosce bene parla delle sue tendenze omosessuali, per quanto negate a voce alta. Dio mio, che vita. E lui, Bertoli, con le sue frasi fatte, con la polvere di finte ideologie, con tutti i cascami di un vocabolario ridicolo e tragico ». Questa vita, già. Qualcuno la vede ancora come una serie di giochi strategici, dove le pedine le torri e gli alfieri e i re si muovono secondo ritmi precisi o aritmie comprensibili. « Ed invece giochiamo con pezzi di mercurio. Tutto sembra lì, da afferrare, e tutto sfugge. Appena ti ritieni in possesso d'un fatto preciso, appena ti ritieni ancorato ad un particolare incontrovertibile, anche questi ti si sciolgono tra le dita, vanno ad aggiungersi ai rivoli, alle fughe, alle contorsioni di quelle gocce di mercurio. E' il dramma di chi si occupa di queste cose, di chi "mangia" questi processi, trame, indagini, da anni. E io, poi, che non capisco niente di politica...». Forse è vero, forse è solo una prova volontaria e automortificantesi di onestà. Certo rimane la testimonianza: nel suo ultimo ritratto, dedicato alla « cassaforte » Anna Bonomi Bolchini, potenza finanziaria e personaggio in perenne « escalation » (nonna di sette nipoti, pare sposi presto un principe romano dopo altri due precedenti matrimoni) Camilla ha intinto ancora una volta quel celebre stelo di rosa che le serve da penna non nel solito inchiostro ma nel vetriolo. « Sì », ammette, schiva: « E' pieno di pettegolezzi. Però tutti veri. Tu dici che anche questa è politica? Oh, grazie ». Sta lavorando a un nuovo libro, sui rapporti tra potere, magistratura, polizia, « che sembra odiosa, ma è la meno colpevole, schiacciata com'è da ordini superiori ». E' un libro che troverà il suo perno sui morti di Milano, una serie nera paurosa. E intanto deve dar retta agli infiniti postulanti. Le sue « cisti ». li chiama, le sue « vescichette ». Piovono da ogni parte e ogni giorno, frantumandole gli orari e le settimane in una continua serie di colloqui, prediche, impegni, dispute. Magari arrivano con mandarini, la costringono a preparare spremute. Sono professori, studenti, gente che scrive, che legge di tutto, che anarchicamente sì arrabatta per vivere e fare. « Mi criticano quel tal libro negli scaffali, e magari hanno ragione, mi intrattengono, cercano di erudirmi. Anche i fascisti. Ma sì. Ne arrivano con scritti, tesi di laurea, pagine di memoriali, che sembrano interessanti, e invece contengono un "dato" ingannevole, dove potrei scivolare come su una buccia di banana. M'hanno detto che li manda Pisano. Per incastrarmi ». Sorride ancora, un'ombra lontana di civetteria che i contemporanei disastri non possono spegnere del tutto: vi è chi non alzerebbe la voce neppure sulla zattera della Medusa, per fortuna. E Milano? Oh, Milano, povera Milano. Nei giardini, improvvisati «gangsters» fanno il loro apprendistato fingendo rapimenti. Come fingendo? Così: avvicinano una madre che sferruzza o legge sulla panchina e le dicono, educatamente, che il suo Claudio o il suo Giangaspare non è più lì, a giocare. La madre, terrorizzata, alza gli occhi,'e infatti il bambino non c'è. Se però sborsa subito centomila: la signora ha solo quarantacinquemila nella borsa? Fa lo stesso, dia pure. Dopo pochi minuti il bimbo riappare, con un giocattolino tra le mani, usato dai minirapinatori per distrarlo, per allontanarlo fin dietro un cespuglio, nell'ombra d'un vicino portone. « Si parla solo di gorilla, ormai. Lo sai che i meglio li fanno arrivare da Torino? Ma dove li fabbricate? Lo sai? E le solite signore, quelle che non spariscono mai, non sanno come trattarli, questi giovanotti. Se gli si deve dar del tu o del voi. Se debbono stare in cucina o a tavola. Se debbono vestire come autisti o come "executives" e comunque deporre le loro spaventose giacche a scacchettoni. Se li si deve tollerare armati o no. E loro non accettano d'essere disarmati, gliene viene un complesso di castrazione, dicono. Intanto i bambini ricchi sono spariti. Tranne quelli di certe case che confinane con asili o scuole di suore. Perché, attraversando un giardino comunicante, vanno dalle suore grazie a un apposito buco ricavato nel muro divisorio. Se non c'è questa fortunata vicinanza di muro, giardino, casa e scuola, tutti esiliati a Crans-sur-Sierre; mentre le madri seguitano dal parrucchiere a discutere dei diversi gorilla ». Neppur un'incrinatura nella voce. Come se si trattasse di cose lontane, americanate che non ci riguardano. La grande « cronista » giudica e manda solo attraverso il filar del discorso, accettando 0 levando un particolare, sottolineando un dettaglio. Sono di prima del diluvio 1 tempi in cui descriveva le donne milanesi, che avevano imparato a bilanciarsi sui tram, i tacchi a spillo ben divaricati. Sono oltre un'improbabile curvatura dell'orizzonte le cronache di certe feste, sfilate, « maschere » e frivolezze che condirono gli anni dell'illusione. Però Camilla rimane identica a se stessa, fedele ai rari amici, convinta del suo strenuo doverismo. E non gliene importa nulla che taluno, ormai riluttando davanti al peso del reale, la definisca «sospetta». Mestiere e dovere, essere e fare costituiscono le radici portanti del suo albero, disposto a respingere una cosa sola: la indifferenza, la passività. Le stesse persone che si sentivano gratificate dalle sue frecce, pur velenose, ora la temono. Altri, che si ritenevano esclusi dal giro dei suoi discorsi, le sono invece grati per l'impegno civile, persino ossessivo, che questa donna ha saputo spremere da sé. « Non dimenticherò mai » mi dice « quei fatti del '69 e come poche ore dopo conobbi la moglie di Pinelli o la zia di Valpreda e le spirali tremende che sorsero e il dolore, lo sbalordimento, l'angoscia, che dovevano trasformarsi in azione positiva, non adagiarsi sul loro stesso grembo ». Lo specchio della realtà, ribaltandosi, cancellava dall'ottica di Camilla Cederna i fumi, gli svaporamenti, i fuochi fatui di una « élite » ormai non più depositaria di verità tangibili. Dai tasti d'una macchina per scrivere che dipingeva caratteri, venne fuori il bruciore di esistenze compromesse, sbagliate, maltrattate, vilipese. Ed è a questo che Camilla non potè dire (e dirsi) no, lei che aveva resistito ad ogni tipo di allettamento editoriale, lei che pareva condannata a redigere le « vite parallele » di damazze, contesse, nuovi ricchi, viaggi esotici, una crema sotto la quale mancava la sostanza di cibi indispensabili. Un'altra urgenza era nata. Ma non vuole lasciarmi andare senza un aneddoto suo, « firmato ». E mi parla di Pietro Valpreda, diventato ormai un suo amico, che l'ha consigliata e protetta durante il trasloco della casa, l'ha accompagnata in tutti i negozi di corso Garibaldi, presentandole il salumiere, il fornaio, il macellaio, e gli diceva: « Questa è una persona a me molto cara, trattatela bene se vuole quel certo arrosto o quel certo prosciutto ». E tutti a rispondere: « Ma certo, se lo dice lei, signor Pietro ». Camilla frena una risatina sapiente e racconta: « Poi dovetti andare per un appuntamento in un grande giornale milanese. E chi ti trovo, in una saletta? Proprio lui, Valpreda, che per guadagnarsi da vivere vende libri a rate ed era appunto lì per ritirare certe quote. Mi fa, stupito: "Come, tu, Camilla Cederna, qui dentro? Roba da matti". E io devo rispondergli: Già. E tu, allora? Ma lui ride, perché è anche molto spiritoso, e mi rimbecca: "Io? Ma io sono il mostro" ». Ci salutiamo, mi ritrovo in tasca una caramella, di chissà quale resto tabacchino. Gliela offro, visto che ha smesso di fumare. « Grazie, mi servirà per l'udienza del processo Bertoli, oggi pomeriggio. Se è digestiva ». Fuori c'è il sole, nei giardinetti vicino all'Arena le altalene risplendono, laccate e vuote, senza un bambino. Giovanni Arpino i ..." . Milano. Camilla Cederna, giornalista e scrittrice