Quale socialismo in Etiopia?

Quale socialismo in Etiopia? Quale socialismo in Etiopia? E' stato soltanto il 20 dicembre, dieci mesi dopo l'ammutinamento della seconda divisione in Eritrea, due e mezzo dopo la caduta dell'imperatore, quattro settimane dopo il bagno di sangue di fine novembre e il naufragio dell'«ipotesi moderata», che la rivoluzione etiopica ha proclamato il socialismo. Quattro dei dieci punti che costituiscono il programma politico dello Stato sorto sulle ceneri della più antica monarchia del mondo si riferiscono espressamente al nuovo assetto economico e sociale del Paese. Il terzo: il motto della rivoluzione «Ethiopia tikdem» (l'Etiopia innanzitutto) si fonda su un socialismo specificamente etiopico. Il sesto: l'economia sarà gestita dallo Stato: ogni bene appartiene di diritto al popolo; soltanto qualche servizio potrà restare privato nella misura in cui ciò sia 7'itenuto di pubblica utilità. Il settimo: il diritto dì essere proprietari terrieri sarà accordato soltanto a chi lavora la terra. L'ottavo: l'industria sarà gestita dallo Stato; sarà consentita qualche azienda privata fino a quando lo Stato riterrà preferibile nazionalizzarla. Inoltre il quarto punto parla di autogestione territoriale, a livello cioè di villaggio e di amministrazione regionale; e il quinto prefigura la formazione di un grande partito unico. Come si vede, è un socialismo cui l'aggettivo «etiopico» non aggiunge granché; né si vede che cosa vi potrebbe aggiungere, considerata la lunga tradizione feudale del Paese, e l'altrettanto tradizionale mancanza di stimoli oggettivi all'elaborazione dì una «propria via» dottrinaria alla soluzione di angosciosi problemi, che sono quelli caratteristici del «quarto mondo »: sottosviluppo, mancanza di risorse sfruttabili a breve scadenza, analfabetismo di massa, dipendenza dall'esterno, la prova recente di una tragica carestia. Con un elemento aggravante e contingente, la dura e costosa guerra eritrea, e uno attenuante, ma a lunga scadenza: la ricchezza potenziale d' risorse agricole e minerarie. Inoltre, è un socialismo che deve fare i conti con i grandi interessi internazionali. Se infatti è vero che una riforma agraria colpirà soprattutto il grande censo feudale, sarà quindi un provvedimento essenzialmente assorbibile dall'interno, è altrettanto vero che il programma di naziona¬ lizzazioni industriali è invece rivolto oggettivamente verso l'esterno. Le più importanti delle 101 società passate il 3 febbraio sotto il controllo totale o parziale dello Stato, nell'applicazione del sesto e dell'ottavo punto del «decalogo», erano di proprietà straniera. Di proprietà interna, imperiale o aristocratica, erano le imprese già nazionalizzate durante la prima fase del nuovo regime etiopico, quella centrata attorno alla figura «moderata» del generale Aman Andom, l'uomo convinto della necessità di una soluzione politica al problema eritreo, ed anche della sufficiente carica rinnovatrice di una «rivoluzione borghese» rispetto al defunto mondo feudale. Quando l'ipotesi Andom è caduta, certamente più sul problema eritreo che su quello sociale, le spinte radicali al¬ l'interno del movimento militare hanno preso il sopravvento, forse anche nel tentativo di svuotare di contenuto le pressioni esterne, esercitate da studenti e intellettuali, per la rapida istituzione di un governo civile, e si è arrivati così alla dichiarazione del 20 dicembre. Unito al problema della guerra di secessione eritrea, il programma delle nazionalizzazioni industriali rappresenta per i nuovi padroni dell'Etiopia un oggettivo elemento d'instabilità nei rapporti internazionali. La guerra sta esaurendo le riserve degli arsenali militari, ed ecco che il governo provvisorio chiede armi agli Stati Uniti. Armi per trenta milioni di dollari. Ma gli Stati Uniti, che hanno continuato a rifornire l'esercito etiopico durante la prima fase di questa rivoluzione, sono adesso in una posizione di ripensamento. Non figura forse, fra le ventinove imprese nazionalizzate parzialmente il 3 febbraio, la Mobil americana, assieme alla Shell, alla Total e all'Agip? Inoltre quel pasticcio sul Mar Rosso, nel quale sono più o meno direttamente coinvolti Paesi arabi amici di Washington come l'Arabia Saudita e il Kuwait, e che s'inquadra in una scacchiera strategica di eccezionale interesse, non vale forse la pena di essere studiato anche secondo l'ipotesi secessionistica, o almeno largamente autonomistica? E' una bilancia con molti piatti, ed ecco che corre insistente la voce, nella capitale etiopica, secondo cui il governo provvisorio s'appresta a mettere molta acqua nel vino del suo socialismo, perché l'interesse economico finisca col prevalere, a Washington e in altre capitali, sulla tentazione di favorire la causa dei «banditi» eritrei. Il socialismo «etiopico» diventa così socialismo «diplomatico», e il Paese è condotto all'amara constatazione che, oggi come ieri, il suo destino si decide altrove. ». v.

Persone citate: Aman Andom

Luoghi citati: Arabia Saudita, Eritrea, Etiopia, Kuwait, Stati Uniti, Washington