MECCANISMI DELLA COMUNICAZIONE di Umberto Eco

MECCANISMI DELLA COMUNICAZIONE MECCANISMI DELLA COMUNICAZIONE I segni e la società Cosa succederebbe se noi non disponessimo del congiuntivo, del condizionale e dei vari tempi verbali? Non potremmo dire, per esempio « se non fossi stato ricco tu non mi avresti amato ». Il che implica che in un tempo lontano io sia stato ricco, che in un tempo meno lontano una donna, di conseguenza, mi abbia amato, e che io oggi sia in grado di raffigurarmi, insieme a un evento che non è accaduto, le condizioni reali di ciò che è invece accaduto. Se invece io, esprimendomi come Tarzan, dicessi « io no ricco, tu no amore me », in certe circostanze riuscirei forse a farmi capire, ma rischierei di perdere il senso dello spessore dei tempi, e del gioco delle possibilità. Questo significa che, possedere una lingua in tutta la sua articolazione, mi permette di capire meglio la realtà, di valutarla, di progettarne delle variazioni, di modificarla e di distinguere il reale dal possibile. Eppure sappiamo che ci sono lingue imperfette che non hanno questa ricchezza articolatoria: in pidgin, la lingua franca che circolava nel periodo coloniale in certe zone asiatiche, formata da un miscuglio di inglese, cinese e dialetti locali, non si sarebbe potuta tradurre la « Ricerca del tempo perduto » di Proust. E non per nulla i popoli del Terzo Mondo, passati dal dominio coloniale all'autogoverno, per prima cosa hanno condotto una battaglia contro il pidgin, riconoscendolo come uno strumento di oppressione. Infatti non è che con una lingua poco articolata non si possa soltanto tradurre Proust: non si può neppure spiegare in termini economici cosa sia lo sfruttamento. Non si può dire per esempio « se io non avessi prodotto un vaso in sei ore di lavoro al costo di mille lire, tu non avresti potuto venderlo a duemila, sottraendomi così la quota di profitto che ti sei intascato e realizzando, allora, un capitale che ora tu hai e io non ho ». Possedere una lingua complessa significa saper vedere il mondo in tutte le pieghe della sua complessità. Naturalmente la differenza tra costo di produzione, prezzo di costo, salario e capitale, posso esprimerla anche analizzando il problema del vaso e delle mille lire in termini di partita doppia, da bravo ragioniere: ma anche la partita doppia è un linguaggio, con le sue regole complesse (tanto che se ne apprende la tecnica facendo per tre anni l'istituto tecnico) e prima che la partita doppia fosse inventata (pare dal Fibonacci) il modo di comprendere i rapporti di affari era assai più rozzo, e l'economia meno sviluppata. Certo uno strumento troppo complesso può ispirare degli usi incontrollati. A saper troppo l'italiano posso costruire delle frasi come « nella misura in cui a monte la situazione della mano pubblica sia determinata dalla congiuntura, a valle gli organi competenti dovranno trarne tutte le conseguenze imprescindibilmente estrapolabili seppure in uno spirito di dinamismo frenato ». Che vuole dire a un dipresso « se le cose in Italia vanno male, bisogna aspettare un momento e stare a vedere ». E in questo caso tradurre una lingua più complessa nel linguaggio di Tarzan non sarebbe una cattiva operazione. Me ne sono accorto io che, messomi a scrivere il Trattato di semiotica generale in inglese, come semplice versione di opere italiane precedenti, mi sono trovato controllato da una lingua che non conosco abbastanza (e che non posso scrivere come Proust scriveva il suo francese, giocando di sinonimi e di metafore, e di costruzioni labirintiche e sintatticamente prestigiose) e sono stato portato a « pensare » un libro diverso, così da doverlo poi ritradurre in italiano scoprendo che il pensiero, controllato da un'altra lingua, aveva preso vie diverse e aveva corretto i miei pensieri precedenti. * ★ Bastano già questi pochi cenni per capire come una disciplina che studia i cosiddetti « linguaggi » (sia che essi si manifestino a parole o a gesti, per immagini o per sequenze di oggetti) non ha mero valore tecnico e coinvolge da un lato lo studio dei nostri meccanismi mentali, e dall'altro lo studio della società e del modo in cui essa organizza la visione del mondo. Lo sapevano il filosofo inglese John Locke che nel 1690 parlò della semiotica come quella branca della filosofia che, studiando i segni, ingloba gli stessi problemi della logica, e il linguista svizzero Ferdinand De Saussure che, all'inizio di questo secolo, pensava alla « semiologia » come a una branca della psicologia sociale. Ma studiare i segni non vuol dire solo capire come funziona un « linguaggio ». Significa anche comprendere quelle condizioni generali della comunicazione che funzionano anche là dove noi crediamo che non vi sia linguaggio, e tuttavia si instaura un processo segnico. Pensiamo per esempio ad un nostro progenitore che per la prima volta scopra che una pietra di forma oblunga, convenientemente impugnata, serve a spaccare una noce, a scavare un buco nel terreno, a uccidere un orso. La scoperta può avvenire per motivi casuali, e non è necessario che la pietra sia lavorata come amigdala affinché, scoprendola come pietra tra le pietre, se ne indovini la funzione. Il problema segnico nasce quando questo nostro progenitore, trovando il giorno dopo un'altra pietra di forma uguale, la veda come l'oggetto capace di spaccare le noci, anche se non la usa. Il nostro primitivo avrebbe saputo cioè compiere un processo astrattivo, riuscendo a vedere molti oggetti diversi (ma tutti riconducibili a una forma-tipo) come i rappresentanti della funzione « spaccare le noci ». ★ ★ Tutte le pietre di una certa forma sono diventate altrettanti « segni » che rimandano a una stessa funzione. Che la pietra funzioni anche come segno sarebbe dimostrato da un gesto che il primitivo potrebbe aver fatto (e che noi facciamo continuamente, se non con pietre, con altri oggetti): supponiamo infatti che avendo una pietra e desiderandone un'altra simile, mostri la pietra a un suo compagno, battendovi sopra col dito. L'altro comprenderebbe di essere invitato a procurare una pietra analoga. La pietra, mostrata, ha funzionato come oggetto materiale che rimanda, per una sorta di tacita convenzione, a tutti gli oggetti dello stesso tipo. Nel momento in cui viene mostrata, la pietra non è più « quella » pietra, ma sta per « tutte » le pietre, e dunque perde la sua consistenza di oggetto usabile per assumere la natura di segno. Ora immaginiamo il primitivo che scopra sulla sabbia l'impronta di un leone. I segni sulla sabbia non sono il leone, e non ne sono nemmeno la zampa; anzi l'impronta di una zampa non ha la stessa forma della zampa, perché certe parti della zampa si sono impresse, altre sono solo « indovinate » e in definitiva la impronta, a causa della cedevolezza della sabbia, è più grande della zampa. E tuttavia il primitivo sa risalire dalla impronta alla zampa, applicando alcune regole di trasformazione non dissimili da quelle che ubiamo per stabilire se due triangoli sono simili (anche se di grandezza diversa). Ma non risale dall'impronta a « quel » leone: semplicemente, all'inizio, associa l'impronta (che c'è) all'idea di leone (che non c'è) e solo in un secondo tempo stabilirà se quella forma (buona per tutti i leoni) si deve applicare a questo o a quel leone. Che è poi quello che ci accade quando ascoltiamo la parola « leone ». La differenza è che l'impronta è determinata in qualche modo dalla forma della zampa, mentre la parola non ha alcun rapporto di similarità col leone: e quindi quando il nostro primitivo passa ad inventare il linguaggio propriamente detto, fatto di parole, passa ad una fase semiotica più complicata, perché stabilisce delle convenzioni in base alle quali dei suoni privi di significato, unendosi a formare parole, acquistano la capacità di riferirsi a cose che non sono presenti e non assomigliano a quel suono. Ecco tracciata in breve la gamma delle varie posibilità semiotiche, da cui si scopre che l'uomo è produttore di segni sia quando gestisce che quando manovra oggetti, quando parla e quando disegna. Se la semiotica ha un problema è quello di trovare delle leggi generali che regolino in modo uguale questi sistemi di comunicazione così diversi. Per esempio, pare che la parola non abbia rapporto col leone se non in base a una convenzione sociale, mentre la impronta è riconosciuta perché è simile alla zampa del leone Ma non è del tutto vero, per che anche il riconoscimento dell'impronta dipende da una serie di regole apprese, tanto è vero che un cacciatore ina bile non saprebbe distinguere la zampa di un leone da quella di un leopardo. Cosa lega questi diversi tipi di regole e di convenzioni? E poi cosa è una convenzione? Un accordo preliminare del tipo « quando ac¬ cenderò una lampada alla finestra significa che ti sto invitando a venire perché non c'è nessuno »? Ma per stabilire una convenzione « linguistica » del genere occorre che ci sia già un linguaggio. Ma come nasce per convenzione il nostro linguaggio verbale, se prima presumibilmente non esisteva un linguaggio con cui decidere le regole del linguaggio? Ci accorgiamo subito che il problema della convenzione ci riporta a varie questioni concernenti la capacità, che gli esseri umani hanno, di agire reciprocamente in modo socializzato. Si pensi a quello che accade quando stiamo telefonando con qualcuno e improvvisamente la linea si interrompe. Richiamo prima io o aspetto che richiami lui? Di solito si richiama insieme e si trova occupato. Ma poi, a un certo punto, io penso che l'altro penserà che io pensi che io aspetto, e aspetto; se l'altro ha pensato come me, riceverò la chiamata; se no, bisognerà ancora tentare... Eppure a poco a poco la convenzione si stabilisce e, tranne in casi di ansia eccessiva, di solito la telefonata riprende. Ci sono delle regole in questo gioco? E' affidato al caso? Ancora: cosa è che rende simile il rapporto tra l'impronta e il leone, la parola e l'animale, la pietra singola e tutte le pietre a cui rinvia? Abbiamo detto il termine chiave: in tutti questi casi c'è una relazione di « rinvio ». Il miracolo della comunicazione umana nasce quando degli esseri associati riescono a usare una cosa materiale presente in luogo di altre cose assenti. I recenti esperimenti sull'apprendimento del linguaggio alle scimmie hanno dato risultati molto interessanti: lo scimpanzè Washoe riesce a riprodurre tutti i segni dell'alfabeto americano dei sordomuti, che ha la stessa complessità articolatoria della lingua parlata, ed è capace di condurre discorsi in cui afferma che qualcosa è uguale o diverso da qualcos'altro, risponde a domande, stabilisce identità e contraddizioni. Non diversamente « parla » Sarah, un altro scimpanzè al quale invece è stato appreso a associare delle forme plastiche, che applica a una lavagna magnetica, ad altrettanti oggetti o relazioni astratte. Ma la cosa più interessante è stato che Sarah, per capire la prima «parola», ha impiegato un numero snervante di prove, mentre per capire le altre ci ha messo pochissimo tempo: il che non accade a noi quando apprendiamo un nuova lingua; che anzi impariamo subito le parole più facili e stentiamo poi a ricordare quelle più complesse e meno frequenti. Ma il fatto è che Sarah non imparava «una lingua»: imparava il principio della significazione. E faceva fatica a capire come una cosa che c'è e si tocca (oggetto o parola) possa « stare in luogo di » qualcosa che non c'è, perché è lontano o addirittura non esiste. Su questa relazione di rinvio (poter « dire » cose che magari non ci sono e non' esistono) si basa la nostra capacità umana di nominare astrazioni e miti, di dire bugie, di costruire ideologie... Da questo meccanismo così semplice (che abbiamo assimilato senza accorgercene) nasce la capacità di mentire, fare poesia, raffigurare ninfe e divinità marine, inviare messaggi segreti fuorvianti, immaginare mondi impossibili, inventare Isole Perdute o la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Fare della semiotica vuole dire studiare questi meccanismi della significazione in base a cui si costituisce ciò che chiamiamo cultura e società, e di riflesso ciò che chiamiamo anima. Umberto Eco

Persone citate: Ferdinand De Saussure, Fibonacci, John Locke, Proust

Luoghi citati: Italia