Recessione dura ma ne usciremo di Francesco Forte

Recessione dura ma ne usciremo Recessione dura ma ne usciremo L'economia italiana è entrata in una recessione più acuta e forse (ma dipende molto dalle scelte che si faranno a breve scadenza) più lunga del previsto. La produzione industriale, che sino a due terzi del 1974 era aumentata al ritmo dell'8 per cento, ha cominciato poi a decelerare, indi a flettersi e in dicembre ha subito uno scivolone del 13 per cento rispetto al livello medio del 1974. Se non avverranno interventi tonificatori a breve scadenza, quest'anno la produzione industriale si ridurrà dcll'8 per cento rispetto al livello del 1974. Poiché nella media del '74 (fra mesi buoni e successivi mesi cattivi) essa si è accresciuta solo del 3,5 per cento, ciò vuol dire che nel 1975 andremo al di sotto del livello del 1973, e ci troveremo così solo di pochissimo al di sopra di quello del 1970. Cinque anni di zig zag, per arrivare quasi al punto di partenza, ma con una capacità produttiva inutilizzata molto maggiore. Dato ciò, gli investimenti in attrezzature, nel 1975, secondo le stesse previsioni, dovrebbero scendere del 15 per cento rispetto al livello del 1974 e quelli nelle costruzioni del 10 per cento. In fondo al tunnel si intravedono però spiragli di luce. Infatti il ritmo di aumento dei prezzi dovrebbe attenuarsi, rispetto a quest'anno, la decelerazione sarà via via maggiore, e, soprattutto, si dovrebbe avere un consistente miglioramento nella nostra bilancia con l'estero: il disavanzo fra importazioni ed esportazioni si ridurrebbe a soli 2500 miliardi perché le importazioni in valori correnti aumenterebbero del 14,5 per cento e le esportazioni, invece, del 27 per cento. La cifra di disavanzo di cui sopra è circa la metà di quella imputabile al rincaro del petrolio. In sostanza, non solo pareggeremmo i conti con l'estero nella parte extrapetrolifera, ma avremmo in essi un surplus, tale da dimezzare la quota dovuta alla «stangala» petrolifera. E il quadro sarebbe ancora migliore non tenendo conto delle fughe valutarie forse ridotte, ma non cessate. L'Italia, nel 1975, si darà insomma una dura stretta di cintola: la sua massa salariale globale aumenta attorno al 18 per cento (due punti meno dell'aumento dei prezzi previsto) a causa della flessione nel volume di occupazione — posti di lavoro e ore lavorative —; le imprese hanno un aumento unitario di costi del lavoro nettamente superiore (lo si calcola sul 25 per cento) e ciò, assieme alla riduzione nel volume delle vendite, vuol dire paurosi sbilanci per molte aziende. Anche le entrate pubbliche risentiranno di ciò, perché la materia imponibile sarà minore e così il disavanzo pubblico non migliorerà, nonostante che vi siano ormai ben poche spese di investimento collettivo. L'economia ha i suoi paradossi. Gli sbilanci aziendali, quelli delle famiglie e quelli di quella grande azienda dissestata che è la pubblica amministrazione sono il prezzo che si paga per risanare il commercio estero, per frenare la spirale dei prezzi, per fare risalire le quotazioni dei titoli a reddito fisso e fare discendere il tasso di interesse, per irrobustire la lira. Resta da vedere se la cura non sia troppo brutale, se non vi sia spazio per intervenire in senso correttivo. E su questo vi è oggi molto da dire. Ma prima annoto che, al di là di ogni discussione, rimane un fatto evidente: questo Paese non si sta sfasciando, come qualcuno supponeva. Sopporta sacrifici duri, con cui riprende le posizioni, per un poco perdute. All'Italia, dunque, è giusto dare credito. L'immagine di Caporetto non le si addice. Ma, dicevo, vi è spazio per misure correttive. Se la massa salariale nel 1975 non scenderà che di due punti al di sotto del previsto aumento dei prezzi, ciò dipende dal fatto che vi è l'accordo sul salario garantito e dal fatto che quello sulla contingenza controbilancia gli aumenti di tariffe, che si stanno per attuare. Ciò varrà a risparmiarci quella deflazione paurosa che, diversamente, si potrebbe temere, per il crollo della domanda di consumi; serve dunque a fare una trincea, da cui far partire la ripresa. Ma ciò evidenzia anche un paradosso. Terremo a casa la gente, perché la produzione non ha abbastanza sbocchi e la pagheremo: mentre la nazione ha bisogno di lavori edili, per case e per le opere pubbliche ed ha molti cantieri che sono fermi per mancanza di denaro. Questo staziona ora nelle banche, ove l'offerta potenziale di fondi per gli investimenti sta superando notevolmente la domanda. Ora, se si faranno lavori edili, con disposizioni finanziarie ad effetto immediato, non si può pensare che le importazioni aumen¬ teranno apprezzabilmente, squilibrando il commercio estero. Inoltre dato che abbiamo il mercato interno così ristretto c che il credito è disponibile, mi pare che vi sia motivo anche per un rilevante aumento del credito per l'esportazione: anche esso può mettere in moto subito la produzione. La strategia correttiva immediata, dun- que, è chiara: accrescere l'investimento edilizio paralizzato da mancanza di fondi; e accrescere il lavoro per il commercio estero. Questo agisce positivamente sull'occupazione e sul prodotto del 1975 e non agisce negativamente sulla bilancia dei pagamenti. Vi è un altro discorso da fare subito, che riguarda gli effetti che la recessione in atto può avere, per il 1976. E' stato calcolato che se avremo un '75 duro come quello prima descritto, anche il 1976 sarà, per gran parte, un anno duro. Ora questo non è accettabile. La stretta deve servire per il riequilibrio e per ripartire, non per bloccarci indefinitamente. Dobbiamo dunque attuare seriamente i programmi di ristrutturazione: e dedicarci a farlo subito, perché ciò possa avere corso effettivo fra la fine del 1975 e l'anno seguente. Così la spesa pubblica per gli autobus, le ferrovie, le centrali elettriche nucleari, il rilancio dell'edilizia popolare (al di là del programma urgente sopra delineato), la dotazione di acqua per accrescere la disponibilità di terra irrigua, se varati per tempo, possono dare una prospettiva diversa al 1976, rincuorare le imprese e i lavoratori, che oggi hanno l'angoscia della cassa integrazione e del dissesto. Non siamo un Paese in disfatta. L'antico cuore di questa nazione povera batte come una volta. Questo lo stiamo dimostrando. Dobbiamo però ancora dimostrare che siamo un Paese capace di mettere a frutto i suoi sacrifici, con una immaginazione e una energia dinamica degne degli Anni 80. Francesco Forte

Luoghi citati: Caporetto, Italia