Charlot, vagabondo e sognatore

Charlot, vagabondo e sognatore PRIME VISIONI SULLO SCHERMO Charlot, vagabondo e sognatore « Il monello » : ritorna il primo film a lungometraggio di Chaplin, girato nel 1921 «Una giornata di Ivan Denisovic»: l'esperienza di Solzenicyn nel lager staliniano II monello, di Charlie Chaplin, con Ch. Chaplin. Jackie Coogan, Edna Purviance. Riedizione. Cinema Centrale d'Essai. Ritorna a un film per volta, e tutti curati dallo stesso autore, il cinema di Chaplin: un avvenimento per gli appassionati di cinema. E' ora la volta del Monello (The Kid), che uscito nel lontano 1921, costituì un salto in lunghezza (6 bobine) nella carriera chapliniana e insieme una conquista, non prima uguagliata, di popolarità, sia per la grazia della favola, come per l'approfondita analisi della figura del « vagabondo » e la presenza del piccolo Jackie Coogan (allora di cinque anni) di cui il regista fece un attore, anzi un Charlottino in sessantaquattresimo, di straordinaria spontaneità e simpatia (Coogan visse poi sempre a spese di quella prima «illuminazione» che lo rese famoso in tutto il mondo). La favola: Charlot, povero vetraio, raccoglie e alleva un bambino, abbandonato dalla madre (Edna Purviance), vittima a sua volta di un seduttore (Cari Miller). Fondato su una trovata d'oro zecchino (il bambino rompe i vetri, che poi il padre adottivo sostituirà), il sodalizio del vagabondo col piccolo derelitto si stringe dolcissimo in mezzo a un mondo ostile, irto fra l'altro di dame di carità che vorrebbero prendere il fanciullo nelle loro grinfie e allogarlo in un orfanotrofio. Belluinamente, Charlot difende la sua cara preda per renderla poi alla madre, pentita e diventata ricca. Nello intervento delle puritane i critici hanno riscontrato un fondo autobiografico, come anche nella camera, stivata d'invenzioni, in cui Charlot ospita, alleva ed educa il suo pupillo, si è visto un « fac simile » di quella dell'East End di Londra in cui egli visse la sua infanzia. Primo lungometraggio, mescolato di dramma, commedia e farsa, Il monello vive nella storia del cinema, e si ripresenta intatto al godimento dello spettatore, anche per una sua apertura, non già liricheggiante, ma lirico-assoluta: intendiamo la celebre sequenza del « sogno », dove le miserabili strade del quartiere si popolano di figure angeliche e volanti (il rovescio della realtà), dileguanti poi in un multato di penne sollevate da una baruffa generale. Se la parte narrativa soffre di qualche caduta melodrammatica, l'estro descrittivo-analitico del film è degno del Chaplin più grande, e con semplicissimi mezzi rende idea d'un microcosmo poetico, dove la trovata regina, come osservò Mario Gromo, consiste nella trasfusione del vagabondo grande nel piccolo, e ciò non su falsarighe parodistiche, ma per riposta e quasi inconscia simpatia: un miracolo di delicatezza registica, se regìa è anche e soprattutto allusività. Col Monello si proietta il gustoso mediometraggio dello stesso anno, The idle class ribattezzato prima « Charlot e la maschera di ferro » e ora «Ricchi e vagabondi»), in cui Charlot interpreta da par suo la doppia parte del vagabondo e di un ricco signore, della cui moglie il primo s'innamora. 1. p. ★ ★ «Una giornata di Ivan Denisovic» di Caspar Wrede, con Tom Courtenay, Alfred Burke, James Maxwell. Produzione anglo-finlandese, a colori. Cinema Ritz. (s.r.) Una giornata scelta tra migliaia, in dieci anni di campo di concentramento. La sveglia prima dell'alba, l'appello nel gelo, la marcia fino al cantiere di lavoro, le angherie dei custodi, la lotta per strappare una razione in più di cibo, la paura delle spie, il piacere avaro di una sigaretta, il timore di cadere ammalati. Perfino, salvatrice e umana, la passione di un lavoro ben fatto, di essere muratori attenti e capaci, di poggiare mattone su mattone, in gara gli uni con gli altri. A sera, il ritorno al campo, le perquisizioni, gli appelli. Ed un pensiero, prima di precipitare nell'agitazione del sonno: «è passato un altro giorno, ho resistito, sono stato un uomo, per un altro giorno». Dietro la storia di Ivan Denisovic, condannato a dieci anni di lavori forzati per un'accusa inventata, c'è l'esperienza dello scrittore Alexandr Solzenicyn con la sua denuncia dei lager staliniani. Ivan sembra l'opera più pura e commossa dell'autore, ed è l'unica conosciuta in Urss. E' stata pubblicata durante il periodo krusceviano, come segno di destalinizzazione letteraria. Il resto della storia personale di Solzenicyn è noto a tutti (la persecuzione, il Nobel, l'esilio in Svizzera), perfino con una nota di disagio nei lettori più sensibili alle amplificazioni politiche e alle tentazioni della propaganda. Solzenicyn si rivela scomodo anche da esule, e la sua ideologia, così poco «occidentale» è di quelle che gli osservatori alfiderebbero più volentieri ai santi che ai letterati. Tradurre Ivan era difficile, quasi impossibile. Perché, dietro la narrazione naturalistica, è un lungo monologo sulla libertà e la sopravvivenza del¬ l'uomo. Forse ci voleva Bresson. Caspar Wrede, regista del film Ransom, ci ha provato con molto decoro e molta astuzia. Del romanzo ha preso la parte «esistenziale», ha cercato nella descrizione minuta, nelle splendide inquadrature di Nykvist (fotografo di Bergman), nella maschera scarnita di Courtenay, una traccia suggestiva di degradazione e di speranza. Ha ottenuto una illustrazione premurosa e prudente, che giunge al suo meglio nella scena del cantiere di lavoro. Ma nella fattura minuziosa non entrano le note morali (lasciate alla voce fuori campo), non si sente la dimensione politica, non lo «scandalo» del libro e la sua provocazione culturale. Può darsi che in Finlandia e in Norvegia, dove il film è stato girato, il gelo abbia ovattato i problemi e l'antistalinismo.

Luoghi citati: Finlandia, Londra, Norvegia, Svizzera, Urss