DOPO IL FURTO DI URBINO

DOPO IL FURTO DI URBINO DOPO IL FURTO DI URBINO I beni culturali Torno a Strasburgo dopo quasi diciassette anni. Dal settembre del 1958 molte cose sono cambiate: è svanito quel clima da «stato d'assedio» che trovai nella città alsaziana, particolarmente cara al generale, agli inizi tormentati della stagione gollista, si è dissolta quella diffidenza arcigna e sospettosa che caratterizzava la tragica Francia vincolata, fin sulle sponde del Reno, ai ritmi cupi del dramma algerino. La stagione di bonario e pacioso « orleanismo » seguita al consolato del generale e culminata nel rinnovato « enrichissez-vous » di Giscard d'Estaing proietta i suoi benefici riflessi in questo avamposto della civiltà francese, sottratto al clima di emergenza gollista e restituito ad una sua misura e discrezione e civile promozione in cui quasi si dissolve la nativa cadenza cuerriera. Al palazzo del Consiglio d'Europa — dove sono ospite — qualche ruga in più. La tribuna da cui parlò De Gasperi ha registrato, pur nella buona volontà dei singoli, fallimenti e delusioni di decenni. E' il palazzo di uno Stato federale europeo, che non è ancora nato, che urta contro diffidenze e resistenze insondabili, nonostante l'impegno delle delegazioni, nonostante il prestigio dei membri; è Io spaccato, commovente, di un edificio che non è ancora riuscito a superare antagonismi, rivalità, gelosie implacabili. Si respira l'aria di un certo 1848 europeo: fra le pressioni incalzanti del moto romantico e le contrastanti e magari dissimulate reazioni dell'indomita, ritornante « ragion di Stato ». Un busto di De Gasperi, pochissimo rassomigliante e un tantino enfatico, ricorda le stagioni eroiche della vigilia, gli incantesimi di quegli anni della ricostruzione post-bellica, in cui l'Europa sembrava a portata di mano, quasi all'angolo della strada, quale estremo antidoto alla furia demente dei nazionalismi e degli sciovinismi, quale supremo riparo all'ondata dissolvitrice dei particolarismi già abbastanza smentiti dal flagello hitleriano. Si è aggiunto, in un corridoio che porta alle stanze degli ospiti del Consiglio d'Europa, un busto, più rassomigliante e meno retorico, di Mazzini, profeta degli Stati Uniti d'Europa, donato, nell'anno del centenario, nel 1972, dalla benemerita « Associazione mazziniana italiana », quella tanto operosa e vigile sotto la guida dell'amico Tramarono. Sforzino Sforza, il figlio di Carlo, che è segretario generale aggiunto al Consl glio d'Europa fin dall'immediato dopoguerra, uno «strasburghese» ormai onorario, me lo fa rilevare con una pun ta non celata di compiaci mento, quasi consacrazione emblematica della politica estera che portò il padre, antico collaboratore di Giolitti negli arabeschi del trattato di Rapallo alle aperture e alle generose ipoteche europee dell'età degasperiana, che fu poi la stessa età degli Schuman e degli Adenauer. Ma nel complesso si respira nel palazzo, moderno ma già invecchiato, un'aura di rimprovero, un complesso carico di delusione rasentante talvolta la frustrazione. Il fervore delle riunioni — sono tante, e in sale diverse — non lo annulla e neanche lo stempera. Gli « eletti dagli eletti » sentono di non avere i poteri necessari per condizionare diversamente una storia, che potrebbe anche non aspettare e non perdonare. La « diarchia » russo-americana, operante nonostante le smentite del Medio Oriente, fa sentire i suoi effetti anche ai bordi del fiume sacro alla contesa franco-tedesca, sembra quasi ricordare che, oltre l'assemblea europea, c'è una logica rigorosa di Santa Alleanza, non a caso ritornante nel modello Metternich tanto caro al « mago » Kissingei. Ti-ma dell'incontro: le politiche culturali europee. Sono stato invitato per illustrare ai colleghi dell'assemblea parlamentare i lineamenti del nuovo ministero, il ministero pei i beni culturali e ambientali, che ha tanto incuriosito i circoli colti di Francia, che ha generato paralleli con le similari esperienze continentali, che ha riacceso speranze o fugato dubbi o calmato apprensioni dure a morire. Al centro del dibattito coi rappresentanti di tutta Europa: Firenze, Venezia, la con¬ servazione dei musei e la difesa delle opere d'arie (e non si era ancora avuto l'agghiacciante furto di Urbino), la possibilità di una « rarta europea » per la cultu:_, di una migliore o maggiore coordinazione (spesso non ne esiste nessuna) fra le iniziative dei vari paesi per la tutela, che non può non essere culturale e ambientale insieme, che non può scindere storia e natura, separare le testimonianze umane dai valori del territorio. C'è, ospite dell'assemblea, il ministro dell'ambiente norvegese, che è una simpaticissima signora abbastanza poliglotta pet non servirsi della cuffia, la quale poi spiegherà come nel suo paese « ambiente » comprenda e quasi subordini anche la politica di promozione culturale, costituisca un tutt'uno con la storia e la cultura quasi come nella Venezia della Serenissima. Ma Venezia, si sente, è al centro di tutto. Nel dibattito che segue alla mia introduzione storica e politica, gli interrogativi sul futuro della laguna si moltiplicano con tono inquieto e, pur nella cortesia degli interlocutori, sospettoso. Mi par di rivivete la stagione del Corriere; allorché a via Solferino, impegnato nella prima difficile battaglia per Venezia (quella con l'amico Montanelli), arrivavano tante e tante lettere, da tutta Europa, da oltre Europa, di sollecitazione, di protesta, di denuncia, talvolta anche di proposta, ma di un tipo di proposta amara, accorata e anche impietosa, quasi nascente da un moto di rabbia per le troppe negligenze, per le troppe trascuratezze, per le troppe condiscendenze del passato lontano o recente. Le competenze del ministero dei beni culturali sono, nel complesso, limitate nell'ambito dell'attuazione della legge speciale per Venezia rimessa a un comitato di ministri in cui il ruolo dei Lavori Pubblici è ovviamente preminente: sono più o meno le competenze «difensive» o «negative» degli eroici soprintendenti — il diritto del « no » — che dalla pubblica istruzione sono passate al nuovo organismo e che saranno esercitate, intra/noenia, con tutto il rigore e l'intransieenza necessari. Ma gli interlocutori di Strasburgo non vogliono neanche soffermarsi sui limiti e sui confini, pur necessari, delle competenze ministeriali. Per loro è l'Italia in blocco sul banco degli imputati. Perché tanto ritardo nella spesa dei trecento miliardi? E perché tante tergiversazioni? E perché sul fronte più generale della difesa dalla sfida dell'aggressione non meno che della degradazione, tante colpevoli dilazioni, opposte alla generosa impazienza europea? E adesso dopo Urbino? La malinconia dell'Europa sembra quasi riflettersi, e condensarsi, nella malinconia per Venezia. C'è il genero di Churchill, Lord Duncan Sandys, il presidente di «Europa nostra» che sarebbe l'equivalente continentale, amico Bassani, di quella « Italia Nostra » con la quale abbiamo condotto insieme tante battaglie, c'è Lord Duncan Sandys, gentiluomo di altri tempi, veramente un contemporaneo di Castlereagh tanto amato da Kissinger il quale, con fermezza pari alla cortesia, mi dice, pur rivolgendosi ai colleghi dell'assemblea: « Se permetteremo a Venezia di cadere in rovina, potremo dimenticare tutto il resto ». Non sono proprio sicuro che chi ha elaborato i piani particolareggiati per la città lagunare, nella fretta dell'ultima ora e dell'incalzare dei « minicompromessi » spesso non storici, abbia prestato sufficiente ascolto a quelle voci europee. Venezia, in un certo senso, non ci appartiene neppure più, come italiani: è un punto di riferimento della coscienza europea. E speriamo che, almeno sul lesi di Venezia, si faccia un passo avanti, anche piccolo, per l'Europa. Giovanni Spadolini