La mafia in guerra contro lo Stato

La mafia in guerra contro lo Stato UN ARGOMENTO CHE NON PERDE MAI D'ATTUALITÀ La mafia in guerra contro lo Stato Dalla mitica "Lega de li Vindicusi" alla concreta esplosione del fenomeno mafioso dopo l'unificazione del Paese a n n l u e : ì o a è l a a Il prof. Gaetano Falzone, che insegna storia del Risorgimento all'Università di Palermo, ha pubblicato per i tipi della casa editrice Pan una Storia della mafia. Il libro, da una parte, dà più di quello che il titolo promette, in quanto, più che una storia della mafia, è una storia sociologica della Sicilia nell'ultimo secolo e mezzo. Dall'altra parte, dà molto meno: quale sia stata l'origine della mafia, se esistesse e funzionasse sotto i vari regimi fino all'unità, come sia organizzata oggi, i rapporti fra i capi, di tutto questo dice ben poco, e credo che non sia possibile sapere di più. La mafia non ha un archivio segreto, che possa un giorno essere esplorato, non lascia traccia scritta della sua azione, e coloro che sanno tacciono. Anche le vittime e i parenti delle vittime tacciono. Tutta la Sicilia tace. E' la legge dell'omertà, In queste condizioni, così l'opera dello storico, come quella del magistrato è difficilissima e spesso impossibile. Alla Biblioteca comunale di Palermo, si conserva un manoscritto del marchese di Villabianca (1720-1802), nel quale si parla di una setta segreta, « la Lega de li Vindicusi », che sarebbe stata attiva al tempo del matrimonio di Costanza con Enrico VI (1185). Il suo scopo: difendere i siciliani dalle prepotenze dei cavalieri tedeschi. Anche il prof. Titone nelle sue pubblicazioni sulla storia della Sicilia ricorda questo manoscritto del marchese di Villabianca e « la Lega de li Vindicusi ». Circa l'origine del costume mafioso, Titone fa una congettura verosimile e acuta. La mafia o, meglio, il carattere mafioso della popolazione della Sicilia occidentale si sarebbe formato sotto la dominazione musulmana e durante la lunga guerriglia che ad essa seguì. La dominazione fu per , tre quarti di secolo una sei | rie di scorrerie e di razzie. I saraceni, dalle rocche e dai castelli, in cui si erano fortificati, scendevano a devastare le terre, che ancora non si erano arrese, e a far bottino di oro e di schiavi. Successivamente, sotto i Normanni e gli Svevi, decine di migliaia di arabo-berberi si ritirarono sui monti o in terre inaccessibili, e di là fecero la guerriglia, che durò a lungo. Le bande saracene La conquista normanna può dirsi compiuta con la caduta di Bufera e di Noto fra il 1089 e 1091. Ebbene, ancora nel 1220, — cioè circa un secolo e mezzo dopo — Federico doveva dedicare gran parte delle sue forze alla repressione delle scorrerie delle residue bande di saraceni. Si sa che la forza della guerriglia è nella complicità della popolazione. Queste bande di guerriglieri ottenevano l'aiuto e soprattutto il silenzio della popolazione col terrore. Si sarebbe formato così quell'abito dell'omertà, che è tanta parte del carattere siciliano e che è il più formidabile ostacolo all'opera della giustizia. Che da allora fino all'Ottocento vi siano state bande o associazioni segrete di malfattori è probabile, ma non bisogna scambiare delitti comuni con l'azione della mafia. Ci saranno sempre stati malviventi in Sicilia e si saranno sempre fatti abigeati o assassini, ma credo che non ci sia alcuna prova ci fosse la mafia ad organizzare quei delitti. Dice il prof. Falzone: «E' da dimostrare che la mafia come organizzenione esistesse già prima del ISSO. Si può accettare l'ipotesi che prima del 1860 si siano avute nelle strutture, divenute poi tradizionali, prefigurazioni della mafia. Ma, più che ai dati in nostro possesso, bisognerà fare appello alla lo gìca delle cose ». L'impresa di Garibaldi « o però dei ricuperi nettarea dell'illegalità»: quanti erano alla macchia per un sopruso sofferto o per un delitto d'onore (o non d'onore) trovarono posto nel torrente del volontarismo. Entro questi limiti e non oltre, vi fu una mafia che collaborò con Garibaldi. A Calatafimi, i «picciotti» erano 700. Al passaggio dello stretto, si dice che ce ne fossero 7 o 8 mila. Seguì la grande delusione dell'unità: i siciliani avevano odiato Napoli e il Borbone. Presero a odiare i piemontesi e i Savoia. « Nel vuoto morale e fra i litigi dei capi, si insinua la mafia ». Si, ma non si capisce come mai la mafia, che sotto il regime borbonico aveva fatto parlare così poco di sé, subito dopo l'unità venga in prima linea e costituisca la preoccupazione principale del governo per quanto riguarda la Sicilia. Si moltiplicano le inchieste pubbliche e private, tutte condotte con intelligenza e onestà, sicché ancora oggi le relazioni possono essere utilmente consultate: quella della commissione Pisanelli, relatore Fabrizi (1867), quella della giunta parlamentare Borsani, relatore Bontadini (1875), quella di Franchetti e Sonnino... L'Italia si sforzava di capire la Sicilia. Intanto, la criminalità nell'isola aumentava paurosamente. Durante l'era giolittiana, non si fece niente di serio per combattere la mafia: in generale, i governi si servirono della mafia, e la mafia si servì dei governi. All'interno della mafia, si combatteva la lotta fra vecchi e giovani. A Monreale, imperversarono gli «Stuppagghiari»; a Misilmeri, la banda detta Fontananova; a Bagheria, i «Fantuzzi». Queste consorterie operarono veri e propri massacri. Il fascismo al principio non molestò la mafia, e questa continuò ad appoggiare i liberali (Orlando) come in passato. Un incidente provocò la rottura. A Piana dei Greci, il capomafia Cuccia | osò dire a Mussolini che, fin¬ ché fosse stato nel territorio sotto la sua influenza, non avrebbe avuto bisogno di altra protezione. E Mussolini, appena tornato dalla Sicilia, lanciò il prefetto Mori contro la mafia. Costui condusse la lotta con tutti i mezzi legali e extralegali. Cacciò in carcere molti « colletti bianchi », personaggi « al di sopra di ogni sospetto », e di questi alcuni morirono in carcere. Deportò, incarcerò, tradusse in giudizio centinaia di mafiosi e di « sospetti ». Si deve riconoscere che, dalla costituzione del regno d'Italia ad oggi, quello fu l'unico tentativo serio di lotta contro la mafia, e credo che, se fosse durato ancora vent'anni, la mafia sarebbe stata debellata. « Calati unco ca passa la china » (piegati giunco, finché passa la piena): dum defiuat amnis. La mafia si piegò, si nascose, e risorse dopo la guerra più potente che mai. Gli americani, appena sbarcati, chiamarono i capimafia e li fecero sindaci o podestà: don Calogero Vizzini a Villalta, Genco Russo a Mussomeli, ecc. L'artefice di questa restaurazione della mafia fu quella specie di dittatore che ci regalarono gli americani: Charles Poletti, il cui braccio destro era niente meno che il capo di « Cosa nostra », Vito Genovese. f legami americani Il separatismo; il bandito Giuliano; Pisciotta uccide Giuliano in seguito ad ordine della mafia (dice il prof. Falzone); alla sua volta in carcere è avvelenato, e « non sembrò impossibile che fosse stato il padre ad avvelenarlo » (Falzone). Poi sono accaduti due fatti, per i quali la mafia ha raggiunto una potenza quale mai aveva avuta in passato. Il primo: si stabiliscono rapporti — naturalmente di collaborazione delittuosa — fra mafia in Sicilia e gangsterismo in America: si costituisce « Cosa nostra », una specie di mafia all'americana. Quindi, rivalità fra le varie « famiglie », delitti senza fine, assassini a decine. Il secondo: la mafia siciliana, che era vissuta sempre sull'agricoltura, sui mercati di frutta, ecc., estende la sua azione al commercio dei narcotici. Il prof. Falzone conclude narrando gli episodi Tandoy, Scaglione, Liggio, e ricordando che la commissione parlamentare antimafia, dopo dodici anni di indagini, non ha concluso niente. Ho letto questo libro con profonda amarezza, e credo che ogni italiano che lo leggerà, proverà lo stesso sentimento. Come siamo caduti in basso! E il peggio non è che l'Italia non abbia debellato la mafia o, meglio, non abbia fatto niente per debellarla. No, vi è qualche cosa di ancora più grave e triste: ed è che la mafia ha conquistato l'Italia. Ha esteso i suoi tentacoli a Milano, a Torino, a Marsiglia. Vorrei, infine, fare una considerazione estranea al tema, che ho fin qui trattato. Di fronte al dilagare di forme atroci di criminalità, risorge di tanto in tanto la discussione sulla pena di morte. Una parte dell'opinione pubblica, esasperata, chiede che la si ripristini. Una altra parte risponde che la pena di morte sarebbe inefficace come le altre pene. Non credo. Penso che oggi la pena di morte sia la sola pena che faccia paura. La mafia è la prova vivente della sua efficacia. In un Paese come il nostro, in cui non esiste il segreto, neppure il segreto delle istruzioni penali, solo la Sicilia, tutta la Sicilia rispetta il segreto dei delitti della mafia: l'omertà. Perché? Perché chi ha visto o udito qualche cosa, sa che, se parla, nessuno lo salverà da un colpo a lupara. Augusto Guerriero