RACCONTI DELLA DOMENICA: SCIASCIA

RACCONTI DELLA DOMENICA: SCIASCIA RACCONTI DELLA DOMENICA: SCIASCIA Altro specchio, altre brame Il corpo senza testa — il solito corpo senza testa dei delitti in cui l'identità dell'ucciso facilmente condurrebbe all'identità dell'uccisore — fu trovato in fondo a una gebbia dei giardini della Favara non sappiamo precisamente in che giorno, tra gli ultimi di marzo e i primi di aprile del 1613. Quel giardino era di don Francesco Ventimiglia: e stando all'opinione del medico legale, che il giorno avanti quel corpo era pieno di giovane vita, non del tutto fatale ci appare la fatalità per cui proprio quel giorno don Francesco aveva mandato a pulire la gebbia. Probabilmente, in questa Palermo dove tutti sanno tutto di tutti, era stato segretamente informato di quel che nella notte era accaduto nel suo giardino: e non gli andava di tenersi quel corpo decapitato nell'acqua con cui annaffiava agrumi e verdure. Comunque, in quel mattino di primavera, gli ortolani di don Francesco aprirono gli scarichi della gebbia: e aspettarono che vi restasse soltanto limo e muschio, per scendervi dentro con zappe e badili. Forse anche loro sapevano di quel corpo che avrebbero trovato avvolto nei verdastri e vischiosi veli del muschio, forse no; ma c'è da immaginare che, anche se ne ebbero sorpresa, non ne ebbero orrore. Era un tempo in cui si accorreva alle giustizie di forca e di mannaia come ad una festa; e i quarti umani restavano appesi a imputridire alle porte delle città, lungo le strade maestre, ad inutile esempio ed ammonimento. Avvalora il sospetto che tutto si sapesse prima della scoperta del cadavere, e che la scoperta non sarebbe da porre sotto i segni della fatalità, la prontezza con cui fu « alle vesti riconosciuto » il corpo: dalla gente, di fronte agli sbirri. Tanta prontezza ad agevolare il corso delle indagini, tanta carenza di omertà, è da credere venisse e dalla pietà verso la vittima — la giovanissima età, la condizione di « creato » — e dalla estraneità, di nazione e di classe, di coloro che si sospettavano o si sapevano responsabili di quel delitto. Dagli abiti fu dunque riconosciuto il corpo: Battista, un ragazzo di quattordici anni, napoletano, venuto a Palermo come « creato » della famiglia Rojas. Infatti, al servizio da due giorni mancava: e le Rojas avevano creduto, dissero, fosse scappato a Napoli. Le Rojas: una famiglia di tre donne. Desiata, la madre; Petra e Giacoma, le figlie. Ancora piacente la madre, belle le figlie: e frequentavano la loro casa due spagnoli, uno di grande nome, l'altro cui il cronista non concede nemmeno il don, uno scriba probabilmente, o un soldato: don Alonso Giron y Pacheco e Francesco Inestasi. Don Alonso era l'amante di Giacoma; se Innestasi di Petra o della madre, il cronista non lo dice. « Per alcuni indizi » le tre donne furono arrestate: e subito, de plano (termine che sottintende l'assenza della coercizione, della tortura), confessarono. Non da loro ma pei causa loro, a loro « compiacenza », il giovanissimo « creato » era stato ucciso: con due pugnalate, da don Alonso. Perché, tra l'Inestasi e don Alonso, il compito dell'esecuzione lo avesse assunto quest'ultimo, riservandosi probabilmente l'altro quello della decapitazione e dell'occultamento, il cronista non lo dice. Si possono fare due ipotesi: che don Alonso, nipote di due viceré, del marchese di Villena che se ne era andato e del duca d'Ossuna che stava in carica, si fosse assunto quel compito nella spavalda certezza dell'impunità; che per punto d'onore gli fosse toccato assumerlo, la « compiacenza » di veder morto il giovane Battista essendo principalmente di Giacoma. Se ne può fare una terza: che i quattro, le tre donne e l'Inestasi con loro o subito dopo di loro arrestato, si accordassero a caricare la colpa a don Alonso nella speranza che tutto quel che si sarebbe mosso a impunità o a grazia per don Alonso finisse col salvare anche loro. ★ ★ Per quanto riguarda i parenti, in quel momento, don Alonso capitava male. Quelli del suo nome, i Pacheco, contavano pochissimo: in piccolo, la loro situazione era quella di Cesare Borgia alla morte di Alessandro VI. Don Juan Fernandez Pacheco, marchese di Villena e duca d'Escalona, viceré di Sicilia dal 1607 al 1610, aveva avuto la sorte di tutti gli altri viceré: che era, come diceva don Scipio Di Castro, quella di lasciar sepolta in Sicilia la reputazione loro, « in modo tale che nemmeno nella posterità ha potuto mai più risorgere ». E don Juan anzi sotto più grave mora, se epigrafe alla sua sepolta reputazione possiamo considerare questa del benedettino Giovanni Evangelista di Blasi, autore di una vasta e informata Storia cronologica dei viceré: « I nobili si erano assuefatti ad una certa indipendenza e si faceano lecita ogni cosa. Una perniciosa anarchia regnava dappertutto, i ladri della città e della campagna sotto l'ombra della loro protezione commetteano alla giornata furti ed omicidi. Un prodigioso numero di sicari si era sparso per tutto il regno, i quali con poco denaro erano gli strumenti di coloro ch'erano fra loro nemici; e felice era colui che preveniva, disfacendosi per mezzo di costoro del suo avversario. Se alcuno di questi misantropi cadea nelle mani della giustizia, s'imbarazzava per modo coi maneggi dei protettori il processo che o ne sortiva innocente o era condannato a lieve pena. Altri vizi, che la verecondia di uno storico non comporta che sieno svelati, impunemente regnavano, non restando salva la pudicizia nemmeno della più tenera età ». E viene fatto di dire: così andavano le cose sotto il marchese di Villena!; manzonianamente, e cioè, per i moltissimi che non praticano il Manzoni, come sotto tutti gli altri viceré e luogotenenti e prefetti, e vorremmo persin dire fino ad oggi. A parte gli « altri vizi » di cui per verecondia il benedettino tace, che davvero sembra siano stati in quegli anni ad un indice mai più raggiunto. Il duca di Ossuna, succeduto al marchese di Villena, non sapeva che anche per la sua reputazione, da calarvela quando da viceré a Palermo sarebbe passato viceré a Napoli, era pronta buona sepoltura Trentenne, ai furori dell'età univa quelli, su cui il popolo scetticamente sorride, del « capitano nuovo » — e cioè del vifacciovedereiocomemettoapostolecose. Si mostrava intransigente e spietato. E quale migliore occasione per illuminare di sé sublime immagine, immagine di romana virtù, di quella che il giovane malcauto parente gli offriva? * ★ Appena, de plano, le tre donne e l'Inestasi confessarono la loro complicità al delitto commesso da don Alonso, il viceré prese quelle misure per catturare il parente che altri avrebbe preso, al suo posto, perché alla cattura sfuggisse. Poiché don Alonso, subito dopo il delitto, si era imbarcato per una spedizione di saccheggio ai paesi della costa africana, il d'Ossuna diede ordine che all'affacciarsi delle galee all'orizzonte, dal primo porto che avrebbero toccato, e che era quello di Trapani, si spiccasse una feluca che, accostando la galea capitana, notificasse al comandante il mandato di cattura per don Alonso e lo facesse responsabile della sicurezza del prigioniero: e i termini « sicurezza » e « sicuro » erano, in mandati simili, avvertimento a non far mancare al boia, per fuga o suicidio, la vittima. Il Secreto di Trapani eseguì a punto l'ordine del viceré e la sera del 31 luglio, mercoledì, al luttuoso arrivo delle galee nel porto di Palermo, don Alonso fu con ogni sicurezza sbarcato e alle sicure mani della giustizia consegnato. E luttuoso fu l'arrivo — i fanali coperti di veli neri — perché infruttuosa e tragica era stata la missione delle galee in terra d'Africa: i servizi segreti dei corsari barbareschi avevano saputo della spedizione, e l'aspettavano. Perciò, sbarcati i siciliani a trenta miglia da Algeri, si erano appena mossi a saccheggiare un paese che il cronista chiama Ciceri, che si accorsero rischiavano di restare tra la sabbia e il mare (espressione che appena si posa sulla carta, eccola sollevata da una voce stentorea; per ricadérvi subito, dimessamente e come in falsetto, trasmutata in bagnasciuga: il famoso, per noi, discorso del bagnasciuga); e a precipizio si erano rimbarcati, lasciando una ventina di morti, tra i quali quattro ufficiali, e portandosi una gran quantità di feriti. Scendendo dalla galea in mezzo agli sbirri, don Alonso forse avrà avuto il rimpianto di non esser rimasto tra quei morti, in terra d'Algeri. E c'era di che. Prima, l'incontro col d'Ossuna; non più, e come mai non fosse stato, parente: giudice crucciato e spietato. Don Alonso negò, si disse innocente. Il viceré gli diede « un'ora di termino »: un'ora perché dimostrasse di essere veramente innocente. Alibi, testimonianze. E don Alonso non ne aveva. Passò nel più torvo silenzio l'ora che il viceré gli aveva accordata. E in silenzio stette, quando fu richiamato, davanti a quel suo parente, poco meno giovane di lui, e da cui ormai dipendeva la sua vita. Non parlò nemmeno il viceré. Ma due giorni dopo venne la sentenza. Tutti a morte: don Alonso, l'Inestasi, le tre donne. La notizia corse per la città suscitando orrore e smarrimento tra i pochi, crudele soddisfazione tra i molti. Nel carcere della Vicaria, don Alonso non se ne mostrò turbato. Fu fissata l'esecuzione per il giorno 8. Poiché nel mese di agosto quasi tutte le famiglie di medio e di alto ceto, allora come ora, se ne stavano in villa, chi nelle vicine contrade chi in quelle dei lontani feudi, ci fu un precipitoso ritorno in città: per non perdersi una così grande festa. « Furono a veder questa giustizia », dice il cronista, « tutti li cocchi di Palermo e tante genti, che il piano non pareva ». E cioè le carrozze dei nobili in cerchi concentrici al palco delle forche e della mannaia; e il popolo che mareggiava intorno a quell'anfiteatro e vi si insinuava, colando tra le ruote e i piedi dei cavalli, non solo per veder meglio ma anche per ripararsi dal feroce sole pomeridiano. Gli alabardieri, che facevano cordone intorno al palco, a stento, e prodigando colpi, riuscivano a non farsi travolgere. Finalmente, dalla vicina Vicaria arrivarono i condannati. Si sapeva che le donne e l'Inestasi da quasi ventiquattro ore stavano in cappella, confortati alla buona morte dai gentiluomini della Compagnia dei Bianchi; e che invece don Alonso aveva rifiutato il conforto di quei suoi pari, dicendo che era cosa da picari, e chiesta la compagnia di gesuiti, carmelitani, agostiniani riformati e crociferi. L'editore della cronaca (1879) si chiede cosa mai don Alonso volesse dire con quell'espressione; ma il significato di picaro, nello spagnolo di don Alonso e nel siciliano di allora, è univoco: furfante di bassa condizione. E dunque che quei nobili travestiti da confortatori potevano impressionare e commuovere, in quel loro umiliarsi nel saio bianco e vegliare accanto ai condannati, i poveri furfanti; non lui, don Alonso Giron y Pacheco. « Usciron dalla Vicaria al solito, accompagnati da' provisionati del capitano; appresso la Compagnia delli Bianchi; dopo detto don Alonso con molti ferri a' piedi; dopo detto d'Inestasi sopra una carrozza, legato ad un palo con le mani indietro; appresso Desiata, Petra e Giacoma sopra altre tre carrozze, convertite da' Bianchi; appresso il conestabile del Capitano e l'algozirio dell'Auditore. Ed arrivati nel piano dove era accomodato il palco, fu decapitato prima il detto di Giron con fare un bel fine; e fu posta la testa in un piatto sopra il palco con 12 torcie negre. Dopo fu appiccato Inestasi; dopo la madre, e dopo Petra, e alfine Giacoma, la quale non potea morire, ancorché il boia molte volte ci avea salito sopra; e si disse, per aver l'abito di Nostra Signora del Carmino; il quale Ievatolesi, di subito morì ». Il bel fine, e cioè la bella morte, di don Alonso; l'imprevisto e imprevedibile incidente della ragazza che non poteva morire a causa dell'abito votivo e dello scapolare di devozione (la parola abito può voler dire l'una o l'altra cosa: la veste color caffellatte o i due rettangoli di stoffa imbottiti di cotone e di una qualche reliquia, su uno l'immagine della Madonna, sull'altro più piccolo il suo monogramma, che tenuti da due cordoncini cadevano il primo sul petto e il secondo sulle spalle, sotto le vesti): uno spettacolo che valeva, per la stessa bella gente, quanto oggi una prima al Teatro Massimo. E c'è da immaginare la terribile scena: il boia che salta ad appendersi alle spalle della ragazza, chedondola con lei; il grido della folla che lo avverte che è an¬ cora viva; il salto a terra da quell'infame trapezio; il consultarsi col «mestatile, con l'algozzino, col prete; e la scoperta che l'abito votivo o il sacro amuleto stavano contro la perizia del boia. Naturalmente, nemmeno ai tanti preti presenti passò per la testa che la Madonna volesse dare un segno di grazia. Appena morto, don Alonso ritornò tra i suoi. Ne composero il corpo, lo misero dentro un tabuto rivestito di damasco nero, dodici torce nere tenute da dodici spagnoli gli si accesero ai lati. Ai rintocchi dell'avemaria, il corteo si mosse. Non c'era dietro il viceré, ma lo rappresentava don Martino de Cordova, nipote. E c'erano il principe di Pacheco, il marchese di Santa Croce, don Luis Zapada, quasi tutta la corte vicereale e quasi tutti i nobili della città. Litaniavano i preti della parrocchia di Santa Maria degli Angeli, dove don Alonso doveva essere sepolto, e i monaci di quel convento. Un cupo, solenne funerale; forse il più bello che si sia mai visto a Palermo. Leonardo Sciascia

Luoghi citati: Africa, Algeri, Auditore, Napoli, Palermo, Sicilia