NORVEGIA, ISOLA AL RIPARO DALLA TEMPESTA di Sandro Viola

NORVEGIA, ISOLA AL RIPARO DALLA TEMPESTA NORVEGIA, ISOLA AL RIPARO DALLA TEMPESTA Miracolo del petrolio Due anni fa i norvegesi temevano le conseguenze del "no" al Mercato comune - Ora il petrolio del Nord, ali dollari il barile, sostiene l'alta congiuntura economica e un sentimento di fiducioso nazionalismo (Dal nostro inviato speciale) Oslo, 31 gennaio. Lo sguardo che un norvegese getta suU'k Europa malata », è uno sguardo inorridito. Esso coglie pressoché ovunque i segni del caos: inflazioni mostruose, scioperi interminabili, penurie, disoccupazione. La stampa (in specie quella popolare), che più d'ogni altra in Occidente riflette una sorta dì « entusiasmo di Stato », l'autocompiacimento che questa società prova per se stessa. provvede a fornire immagini impressionanti di quel che accade « fuori », agli « altri ». Così cresce nei norvegesi (è cresciuto soprattutto nel corso dell'ultimo anno) un sentimento che somiglia al sollievo degli scampati, e si fa più forte la spinta a tenersi discosti, ora più che mai, dai luoghi del disordine. Perché qui, certo, c'è un largo e ordinato benessere. Le riserve valutarie sono al loro massimo, l'inflazione è contenuta al 10 per cento, l'industria lavora a pieno regime (l'aumento della produzione è stato l'anno scorso del 5 per cento), e i disoccupati — contro il 10 per cento in Danimarca, il 5 in Italia e il 4,2 in Germania — sono appena lo 0,7 per cento. Ormai avanti alla Germania nel calcolo del reddito per abitante, la Norvegia potrebbe raggiungere tra non molto i 6.300 dollari annui del record svedese. Due anni fa era diverso. Un'incertezza ansiosa aveva colto i norvegesi all'indomani del referendum sull'ingresso nella Comunità europea, quando il Paese aveva votato « no », no all'Europa. Trascorse poche settimane, nel gennaio del '73, la gravità del gesto e il senso profondo di quella decisione s'erano fatti più chiari, e già subentravano il turbamento e i timori. I partiti politici erano lacerati, gli uffici dell'Unione industriali risuonavano dei lamenti, al ministero degli Esteri si lavorava febbrilmente per riparare — con un trattato commerciale ca pace di stabilire un qualche raccordo con la Comunità — al mal fatto. Persino ì più combattivi dei partigiani del « no » apparivano ormai come intimiditi. E ai primi sondaggi, un mese e mezzo dopo il referendum, ecco che le percentuali del voto s'erano ribaltate: ora la maggioranza dei norvegesi, la stessa ristretta maggioranza che aveva imposto il rifiuto all'integrazione europea, si dichiarava per la Cee, contro l'isolamento. Ma l'inquietudine e il disagio di quella fase, durata per buona parte del '73, non sono più che un pallido ricordo. A consentire alla Norvegia di superarla è venuto il petrolio, e « insieme » ad esso la crisi energetica del mondo industrializzato. Se questo Paese è oggi l'« isola » prospera che abbiamo descritto, neppure lambita dall'onda nera del marasma economico e finanziario dell'Occidente, è perché esso si trova ad essere un esportatore di petrolio essendo già da tempo un Paese industrializzato e ad alto tenore di vita. Una situazione specialissima, quel che alcuni chiamano il « caso », altri il « mi ■ racolo » e altri ancora il « paradosso » norvegese. Certo, nel '73 (quando qui lievitava la coscienza dell'emarginazione e affioravano, sempre più amari, i pentimenti) si sapeva di già che la Norvegia avrebbe estratto parecchio petrolio dalla sua piattaforma continentale nel Mare del Nord. Ma altre cose, almeno sino al fatale autunno di quell'anno, non si sapevano: che il prezzo del greggio sarebbe andato a oltre 11 dollari il barile (allora ne costava un po' meno di 4), che tale aumento avrebbe comportato lo sfascio subitaneo, spettacolare delle bilance commerciali dei Paesi importatori, e che il petrolio norvegese si sarebbe rivelato assai più abbondante del previsto. Perché si delineasse in tutta la sua straordinarietà il «caso norvegese» bisognò attendere dunque la guerra del Kippur, /'embargo arabo e l'aumento dei prezzi del gre'igio. Sino ad allora il petrolio norvegese, che si prevedeva di estrarre a un costo dieci volte maggiore di quello del Golfo Persico (2,50-3 dollari al barile), non sembrava infatti un grosso affare. Ma questi erano pensieri del « mondo di ieri », dell'epoca che ha preceduto la grande crisi: ora che il petrolio norvegese si estrae a un costo medio che sfiora i 4 dollari ma si vende a 11-12, l'affare è divenuto grossissimo. Col secondo aumento dei prezzi del greggio (Teheran, vigilia di Natale del '73), ci fu nell'opinione pubblica norvegese un ulteriore assestamento. Bastò che da Washington e soprattutto da Bruxelles giungessero i segni (i dati contabili, il linguaggio) del panico, e tutto tornò come ai tempi del referendum dell'anno prima. Smentendo il luogo comune che vuole ì nordici meno incostanti dei popoli meridionali, la maggioranza dei norvegesi — preoccupata de- gli scricchiolii che venivano dalle strutture finanziarie dell'Occidente — aveva di nuovo mutato opinione e dichiarò agli intervistatori di voler restare fuori dall'Europa, fuori dai guai. Il timore dell'isolamento era dimenticato, e subito si profilava quella che gli inglesi chiamano la « growins insularity », la crescente insularità della Norvegia del « miracolo ». A Oslo si viene oggi soprattutto per questo: a osservare, a misurare — se possibile — il fenomeno isolazionista, a porsi un paio di domande. Per esempio: sino a che punto i norvegesi sono decisi a tenersi defilati dalla crisi economica e dalle difficoltà politiche (negoziato coi Paesi dell'Opec, dialogo euro-arabo, problemi della sicurezza in Europa) dell'Occidente? Dove comincia e dove finisce la loro « disaffezione » di membri della Nato, quanto è profonda e diffusa la tentazione neutralista? La risposta non è facile, per ora. perché la linea di Oslo, la condotta del suo governo, si mantengono ondeggianti. E tuttavia è innegabile che due episodi abbiano fortemente avvalorato la diagnosi di isolazionismo: il j rifiuto norvegese di entrare a far parte della Iea (International Energy Agency) e la questione delle « zone » di pesca. La Energy Agency raccoglie 16 nazioni, tra cui i membri della Cee meno la Francia. E' vero che il suo ruolo sembra più politico che altro, un'ennesima affermazione della teorica solidarietà tra i maggiori importatori di petrolio e il blocco dei produttori: ma proprio per questo l'inclusione della Norvegia, che a partire da quest'anno comincerà ad esportare il suo greggio e tra un paio d'anni ne esporterà quantità rilevanti, avrebbe avuto un significato ben preciso. Norvegia ha invece detto no, un no quasi altrettanto clamoroso di quello che pronunciò contro l'integrazione europea. Da qui lo sconcerto dei Paesi della Cee, e un'irritazione scoperta, al limite del litigio, da parte del Dipartimento di Stato americano. Ma le sorprese non erano finite. Dopo il rifiuto alla Iea, la Norvegia decideva di impedire in alcune zone fuori delle proprie acque territoriali (dodici miglia, sinché la materia non sarà stata rivista in sede internazionale) la pesca a strascico (a sciabica, per usare la terminologia della Cee), che i pescherecci inglesi, tedeschi, francesi e olandesi praticano da sempre in quei paraggi. E quando da Bruxelles sono giunte proteste e minacce di ritorsione, il governo norvegese ha non solo reagito seccamente ma ha anche lasciato intendere di avere allo studio l'estensione delle acque territoriali al limite delle cinquanta miglia. Ce n'era, ce n'è abbastanza per parlare di « growing insularity », di « nazionalismo ». Le sole incertezze che sussistono vengono da quegli ondeggiamenti del governo di Oslo cui abbiamo prima accennato. Tanto per quel che riguarda la Iea quanto sulle « zone » di pesca, si è assistito infatti nelle ultime due settimane a un riaggiustamento della posizione norvegese, a un accenno di compromesso. Come spiegarsi questi scarti d'umore? Sono i norvegesi stessi a fornire un'interpretazione: come ai tempi del referendum sull'Europa, essi dicono, la Norvegia è divisa. Il che è vero. C'è un vertice, un « establishment » che raccoglie forze sociali per niente omogenee (da una parte il governo laborista e la dirigenza sindacale, dall'altra il partito conservatore e i « managers » dell'industria), la cui vocazione atlantista è salda, e che vorrebbe — sia pure con qualche cautela — mantenere stretti legami con l'Europa. E c'è poi il resto del Paese che sembra tendere soprattutto a restare « diverso ». Anche nel « resto del Paese » si mischiano componenti assai dissimili tra loro: l'estrema sinistra (comunisti compresi) e le « chiese » luterane di più fervida osservanza, gli intellettuali e i pescatori del Nord, le rade frange di contestatori e l'ex partito contadino ora « del Centro ». Invocando una serie di motivazioni j '('culturali' ecologiche'nazio naliste, pacifiste) al cui fondo s'intravede però, molto netto, il senso d'insicurezza comune a molti popoli periferici, la maggioranza dei norvegesi si oppone alle spinte integrazioniste. intende conservare il Paese «quello che è ». E' da qui che proviene la spinta « insulare »: e nel quadro d'una democrazia molto sentita e funzionante tale spinto, è destinata a svolgere un ruolo assai concreto nella prospettiva norvegese. Sandro Viola