RICORDO DI CARLO LEVI

RICORDO DI CARLO LEVI RICORDO DI CARLO LEVI Il mio amico Mi ero svegliato adagio, tra alti e morbidi guanciali, senza dubbio ripieni di piuma d'oca, in mezzo a cui la mia testa stava sprofondata come piombo. Di piombo è il sonno quando si è giovani e sani. Avevo ventotto anni. Un enorme, gonfio piumino mi copriva, oltre lenzuola e coperte, dal mento ai piedi. Così, prima ancora che mi sforzassi di sollevare le palpebre, e forse addirittura qualche attimo prima che mi svegliassi, quel calore e quella morbidezza fascianti mi avevano, in qualche modo, ricordato che non mi trovavo nel solito, duro Ietto dell'alberguccio che era diventato, ormai, la mia casa, non ero nella stanza d'angolo in vista del lago, a Corconio d'Orta, ma che ero... dove ero? Attraverso gli ultimi spessori di sonno avevo comincia to a udire, intorno a me, strani trepestìi, strane voci, avrei detto perfino uno smuovere di sedie, di tavoli, di mobilia, un aprire e chiudere di cassetti, e passi, passi, come se la casa fosse piena di gente. Quale casa? Non ero ancora completamente sveglio. Ancora non mi ero reso conto di dove mi trovavo, ma soltanto che ero in un posto « nuovo ». Sollevai finalmente le palpebre, guardai l'ora: e, prima dell'orologio, vedevo la camera estranea, alta, in una luce azzurrina che filtrava, tra tende e persiane, dalla stretta, alta finestra, e che, al mio sguardo, era come chiusa, in basso, dalla cornice curva molle e mobile del piumino, e, a destra e a sinistra, dai due rigonfi guanciali in cui la mia testa sprofondava. Di colpo, ricordai. Ero in casa di Carlo Levi, in via Bezzecca, anzi in casa del papà e della mamma di Carlo, che mi avevano gentilmente ospitato. Da Corconio, dove vivevo, ero calato a Torino in bicicletta: Bemporad stava per pubblicare il mio libro America primo amore: ma ancora mancava la copertina: Carlo aveva letto le bozze, e mi aveva promesso che l'avrebbe disegnata. In poche ore, il pomeriggio precedente, mi aveva fatto un ritratto a olio: poi aveva abbozzato, su grandi fogli di carta, parecchie prove, una dopo l'altra, della copertina. Lo sfondo era azzurro e la scritta rossa. Finalmente, col pennello intinto di blu, aveva preparato il disegno ultimo e buono, quello che avrei dovuto far avere all'editore: era la forma geografica degli Stati Uniti, che però era anche la forma di una diavolessa accosciata, e una sovrapposta, diafana immagine dei grattacieli. A questo punto del lavoro, la precoce sera di marzo aveva sorpreso Carlo, e me che assistevo affascinato, nel suo studio di piazza Vittorio. Mancava ancora la scritta, cioè il titolo del libro e il nome mio e dell'editore: e ci vuole polso fermo per tracciare a mano libera su un foglio parole destinate a una copertina. Carlo, un po' stanco, aveva rimandato all'indomani e mi aveva invitato in via Bezzecca a cenare e a dormire. Avevo accettato con entusiasmo. La cena era stata buonissima, sebbene non ricordi la composizione del menu. Quando si è giovani, si è più « spirituali ». Solo il vino ricordo, che era rosso e forte, una barbera o un dolcetto, e squisito: il papà di Carlo era intenditore e amatore del vino buono. Ma, molto più, ricordo il calore festoso, affettuoso, fasciante della famiglia di Carlo, intorno a Carlo e intorno a me, per tutta la sera. Guardai l'ora. Erano le sei e mezzo di mattina. Com'è possibile, mi dissi, che la famiglia di Carlo sia già in piedi e si aggiri per la casa facendo tutto questo strepito? Ma non mi tormentai per cercare la risposta. Mi voltai da una parte. Affondai più che potevo la testa in uno dei provvidenziali guanciali, l'altro me lo tirai sull'orecchio libero, fissandolo con un lembo del finissimo lenzuolo di lino ricamato e subito mi addormentai. Poco dopo, tuttavia, ero di nuovo sveglio. Carlo stesso mi aveva svegliato: era davanti a me, sorridente come sempre, con un vassoietto e una tazzina di caffè. « Bisogna proprio che ti alzi, Mario » mi disse: ma io, intanto, mi ero già accorto che il suo sorriso questa volta non era il solito: era, come dire? esterno e leggero, quasi una velatura su un fondo di tristezza e di grave noia. « La casa è piena di questurini, so¬ zD o n , e n a a ¬ no venuti per una perquisizione ». Verso le otto avevano finito. Dissero a Carlo di prendere un po' di biancheria: segno che 10 arrestavano. Subito, intanto, lo avrebbero portato allo studio di piazza Vittorio: la perquisizione doveva continuare là. Con loro, andai anch'io. Ci andavo a... prendere la mia copertina. Ma come avrei fatto per la scritta, che ancora mancava, e Carlo certamente non avrebbe potuto eseguirla lì per lì, in presenza dei poliziotti, prima di essere condotto in prigione? Durante il tragitto in macchina, stretto tra i questurini, Carlo rimase tutto il tempo silenzioso, con quel sorriso leggero e amaro sulle labbra. Era ridicolo che io pensassi ancora alla mia copertina: ma, sebbene non osassi dire niente a Carlo e sebbene, stretto tra i questurini, rimanessi silenzioso anch'io, confesso che ci pensavo. Arrivammo a piazza Vittorio, salimmo le scale fino allo studio. Carlo aprì la vecchia porticina e andò avanti. Sul cavalletto, al centro della grande mansarda, nella luce tranquilla del mattino, era apparso 11 foglio sfiorato dal pennello leggero e fasciante di Carlo: la figura azzurra della diavolessa, degli Usa, dei grattacieli. E la scritta? Carlo, che era andato fino in fondo ad aprire la finestra di un abbaino, tornò indietro col suo passo lento e tranquillo, verso me e i questurini: appena entrati, ancora fermi presso la soglia. Notai che Carlo era pallido e che, per la prima volta, aveva dimesso anche quell'ombra di sorriso. Improvvisamente, si volse al commissario e tornò a sorridere, come illuminandosi: « Permette? » gli disse accennando verso l'uscio della toilette. Il commissario annuì e Carlo si chiuse nella toilette. I questurini incominciarono a perquisire anche qui. Aprivano i cassetti, li vuotavano, scostavano le tele, scartavano pacchi, guardavano dappertutto con metodo e con ordine. Ma intanto, avevo udito, nella toi lette, scrosciare l'acqua: subito capii (e seppi in seguito) che Carlo era riuscito, così, a distruggere alcuni documenti che avrebbero potuto comprometterlo ancor più gravemente e compromettere altre persone. C'era riuscito grazie alla calma e all'autorità del contegno, alla straordinaria presenza di spirito e, forse, soprattutto, all'innocenza dello sguardo azzurro, innocenza vera e che nemmeno il commissario si era sentito di mettere in dubbio. Carlo riapparve e disse al commissario: « Adesso, se permette, dovrei finire questo disegno per la copertina del libro di Soldati ». Non me l'aspettavo. Il cuore cominciò a battermi furiosamente di riconoscenza e di ammirazione. Carlo si era avvicinato al cavalletto, e aveva concluso, sempre rivolto al commissario: « Deve spedirlo oggi a Firenze, per la pubblicazione. Intanto, loro possono continuare... » e accennò vagamente ai questurini che tutto intorno frugavano la mansarda. Carlo aveva già intinto nel rosso il pennello: ma lo po sò e si mise, invece, a sfogliare a osservare uno dopo l'altro quegli abbozzi che aveva fatto il giorno prima per prova della scritta: scelse i due o tre migliori, li mise bene in vista su un altro cavalletto. Adesso non c'era più tempo per sbagliare e rifare. La perfezione era senz'altro necessaria. La scritta doveva essere definitiva. Carlo alzò il braccio, socchiuse gli occhi, e cominciò, tranquillo, come scivolando e accarezzando, a tracciare il mio nome. Sulla copertina del libro un'affascinante diavolessa è adagiata in atteggiamento di riposo, non fosse per quelle gambe che sembrano oscillare a mezz'aria come vesciche piene di vento; al di sopra, una specie di proiezione astrale o metafisica della stessa creatura genera dal suo grembo lo spettrale organo dei grattacieli di Manhattan. Non so quanto d'intenzione o di suggestione ci fosse nell'animo del disegnatore di questa copertina. Ma nel leggere le pagine scapigliate del libro, quella diavolessa e quel suo fantasma non cessavano di sforzare dalle celle della mia memoria un vago ricordo di lontane letture, che finalmente, associandosi a quel che l'autore diceva dell'architettura dei grattacieli, affiorò in piena coscienza. Ed erano i versi del puritano Milton sulla costruzione del Pandaemonium, l'eccelsa reggia di Satana in cui i demoni terranno il concilio: reggia che sorge dal suolo, come a un soffio dubdcedCqgqees di vento un organo diviene un'immensa mole vocale: « As in an organ, front otte blast of ivind... ». Così scrisse, su La Stampa del 13 luglio 1935, Mario Praz, che ignorava o, piuttosto, che era costretto a ignorare il nome di Carlo Levi. Ma come dubitare che nell'animo di Carlo Levi non fossero, anche questa volta come sempre, tutte le intenzioni e tutte le suggestioni possibili? Proprio per questo, Carlo era pittore ma era, insieme, scrittore e poeta e critico, medico e uomo politico. Certo, la semplicità, la naturalezza, la dolcezza del suo stile ingannavano. Allo stesso modo, la dignità della sua espressione aveva illuso e affascinato i questurini. « L'honnéte homme Iroinpé s'éloigne ci ne dit mot ». Ma Carlo non potè allontanarsi se non in mezzo a loro, verso il confino. Fu lui stesso, ricordo, a dare il segnale. Finita la scritta, posò il pennello, staccò le puntine: « E' già asciutto », disse a me, « ma per un'oretta fai ancora attenzione ». Si volse al commissario e, col tono di colui che comanda, non di colui che ubbidisce: « Andiamo », disse. Questa è l'ultima parola che ricordo di tutto l'episodio. Ma l'ultima immagine, non so perché, è dalla piattaforma di un tram: il numero Quattro, che avevo preso in piazza Vittorio, e che correva sferragliando verso via Po. Dalla piattaforma posteriore, guardavo i portici davanti a cui, pochi istanti prima, Carlo era salito sull'automobile dei questurini e mi aveva detto addio: guardavo la discesa della piazza verso il fiume, la collina nel suo primo verde primaverile, le facciate gialline dei grandi palazzi neoclassici che si allontanavano in prospettiva, i tetti rosso bruni: guardavo la lunga fila degli abbaini e cercavo inutilmente di indovinare quello della mansarda dove, dopo aver conosciuto Carlo Levi scrittore poeta critico uomo politico, avevo imparato a conoscerlo, qualità ancora più rara e rarissima negli artisti, amico. Mario Soldati

Persone citate: Bemporad, Carlo Levi, Ietto, Mario Praz, Mario Soldati

Luoghi citati: America, Firenze, Manhattan, Stati Uniti, Torino, Usa