Dai magistrati agli infermieri di Carlo Casalegno

Dai magistrati agli infermieri Il nostro Stato Dai magistrati agli infermieri Per hi prima volta, salvo cedimenti del governo o ripcnsamenli all'ultima ora, nella prossima settimana, i magistrati faranno sciopero: mercoledì e giovedì fermeranno l'attività giudiziaria, come avvenne in altri casi per la protesta di cancellieri o impiegati. Non discutiamo né la fondatezza delle loro rivendicazioni salariali, né i motivi di principio su cui impostano il braccio di ferro con il governo, ne la liceità dello sciopero: nessuna legge vieta ai magistrati di astenersi dal lavoro per farsi aumentare Io stipendio. Ma come cittadini siamo indotti a porci due domande. La prima è rivolta ai magistrati: pensano di avere scelto per la loro azione sindacale il momento più opportuno, non temono clic questo sciopero contribuisca a distruggere quel poco che rimane di fiducia nella Giustizia? La seconda va indirizzata ai politici: non è ora di tradurre in leggi l'articolo 39 della Costituzione, che prevede — per rilevanti interessi della collettività — limiti al diritto di sciopero? I magistrati non sono né i soli né i maggiori responsabili del fallimento della Giustizia: leggi arcaiche, norme assurde, servizi insufficienti, cattiva distribuzione del personale impacciano o distorcono l'attività del personale giudiziario. Ma non sono neppure innocenti, e l'opinione pubblica lo sa. Accanto a giudici ottimi, imparziali e laboriosi ce ne sono d'inerti, di faziosi e d'impreparati. Le lentezze processuali non sono imputabili soltanto agli anacronismi dei codici o alle astuzie degli avvocati. E le inchieste sbagliate, le sentenze assurde sono firmate da uomini cui nessuno chiede conto degli errori, o della sordità agli interessi del Paese. Non si può chiedere ai cittadini simpatia per lo sciopero delle « toghe » mentre si aspetta un altro rinvio del processo per la strage di Milano (dicembre 1969), mentre i terroristi di Ordine Nuovo trovano l'impunità attraverso indulgenti giochi di procedura, o quando migliaia di persone preferiscono un cattivo ma rapido compromesso cxtragiudiziale all'attesa interminabile d'una sentenza. Ma anche se non ci fosse questo pesante collier de doléances converrebbe chiedersi se il diritto di sciopero debba spettare in egual misura, senza limiti né vincoli, ai braccianti e ai giudici, alle dattilografe e ai dirigenti dello Stato, ai netturbini e ai medici. Sono lutti lavoratori; ma con funzioni, responsabilità, privilegi diversi. Nel silenzio della legge, non c'è categoria — salvo gli sfortunati uomini della polizia — che non possa scioperare, anche se la protesta significa paralisi di servizi essenziali: finanza pubblica, sanità, trasporti, sicurezza. E' un'odesa all'equità, un danno spesso senza misura con g'intcrcssi che vogliono tutelarsi con l'astensione dal lavoro, un rischio gravissimo. Quello dei limili al diritto di sciopero è un problema arduo per chi crede (come l'autore di questa rubrica) che « togliere la Incolta di sciopero sia ridurre in schiavitù il lavoro »; ma eluderlo non e una politica saggia. Muovendo dal principio che i limiti debbono essere contenuti nei minimo indispensabile per la tutela di primari interessi collettivi, e con un rigoroso spirito d'equità; ricordando che l'autodisciplina e il senso di responsabilità dei gruppi contano l'orse più dei vincoli di legge; rispettando lo spirito della Costituzione, ci sembra che qualsiasi regolamento debba tener conto del tipo di lavoro e dei diritti che « lo statuto di categoria » assegna ai lavoratori. Nell'alta amministrazione pubblica, per l'importanza ch'essa ha nella vita nazionale e per i privilegi che offre (sicurezza dell'impiego e della carriera, spesso inamovibilità, e anche un prestigio non misurabile in denaro), sono leciti e necessari dei limiti intollerabili per il dipendente da imprese privale e anche per l'impiegalo di servizi pubblici. Non si può ignorare che un lungo sciopero dei dirigenti statali, forse ventimila alti burocrati su cinquantacinque milioni di abitanti, basterebbe a paralizzare lo Stato ed equivarrebbe ad una rivoluzione bianca, distruttiva ma oggi legittima. Sarebbe presuntuoso ,nei limiti d'un artìcolo, andar oltre questa spartizione addirittura ovvia, che distinque i grands commis de l'Elat ed i servizi essenziali (forze armate, polizia, sanità) nel mondo vastissimo del lavoro. Ma si possono aggiungere due osservazioni, suggerite dall'esperienza. C'è spesso una sproporzione assurda tra l'importanza d'una vertenza e le sue ricadute: e ragionevole che i servizi aerei siano bloccati dallo sciopero delle hostess che non vogliono preparare il letto ai piloti, o che venti persone fermando un'acciaieria provochino miliardi di danni? E c'è spesso una tolleranza eccessiva per il modo duro, ai limiti della legalità, in cui si svolgono certi scioperi, per le sofferenze che infliggono non ai datori di lavoro, ma a cittadini incolpevoli. Per rendersene conto, basta affacciarsi ad un ospedale durante un'agitazione di infermieri, quando all'arresto del lavoro s'aggiungono il picchettaggio o forme aspre di lotta: malati in abbandono, sporcizia, laboratori chiusi, attese interminabili, il disagio che s'aggiunge alla sofferenza, materiale in abbandono, un'atmosfera involontariamente disumana. Lavorare in ospedale può essere faticoso, sgradevole e non redditizio, né impone la rinuncia alla difesa del proprio salario; ma la difesa del malato è forse meno importante e legittima? Carlo Casalegno

Luoghi citati: Milano