Incontro coll'artista, nel museo-studio di Augusto Minucci

Incontro coll'artista, nel museo-studio Incontro coll'artista, nel museo-studio Messina: mani logore per 50 anni di scultura A 75 anni, lavora nell'ex chiesa di San Sisto a Milano - Il ricordo dell'infanzia povera a Genova, quando la famiglia cercava le erbe per sfamarsi - Oggi pensa al nome per il futuro (Dal nostro inviato speciale) Milano, 24 gennaio. Francesco Messina mi riceve nel suo studio-canonica, sotto i ietti dell'ex chiesa di San Sisto, nel cuore della Milano antica. Non alto, solido, volto carnoso, radi capelli grigi e due occhi scuri, guardinghi, come se celassero nel fondo un'ombra di sospetto. Sa che la sua scultura ha suscitato entusiastici consensi, ma anche critiche ed è sempre pronto alla polemica e alla battaglia. «Stringa piano, dice, porgendomi la destra, ho le mani "consumate". No, non sono reumatismi, ma il martello pneumatico». Cominciò ad avvertire i primi dolori nel 1961, a Pietrasanta, dove lavorò, ininterrottamente per tre mesi, alla grande statua di santa Caterina da Siena che è ora su uno degli spalti di Castel Sant'Angelo, a Roma. In questi giorni d'inverno deve proteggere le mani con due paia di guanti: uno di lana senza dita e uno di pelle. Mani straordinarie, che hanno dato vita a centinaia di opere d'arte: disegni, bassorilievi, ma, soprattutto, mirabili sculture: nudi di adolescenti stilla cui pelle incontaminata palpita un candore virgineo, corpi di donne pieni di calda sensualità, aeree ballerine, cavalli scattanti o colti nello sforzo rabbioso di ergersi dopo una caduta. Poi la serie straordinaria dei ritratti in terracotta colorata, che, pur conservando la perfetta somiglianza col modello, emanano un fascino metafisico. Ora un centinaio delle sue opere più significative sono state ordinate nell'ex chiesa di San Sisto. E' nato così il museo-studio Messina che, a trenta giorni dall'apertura, è già stato visitato da quindicimila persone. «Un sogno che accarezzavo da tempo: da quando, per anzianità, dovetti abbandonare l'Accademia di Brera. Mi nacque il problema dello studio e vidi questa bellissima chiesa in abbandono; un monumento nazionale che, come tanti altri monumenti italiani, stava andando in rovina. Chiesi il permesso di occuparla e restaurarla e mi venne concesso. Non è stato facile: risolto un problema, se ne presentava subito un altro; inoltre la somma che predisposto, con somma che avevo predisposto, con il passare del tempo, è servita soltanto per consolidare le fondamenta. Ma Milano ha fatto tanto per me e io ho voluto fare qualcosa per Milano: così, restaurata la chiesa, le ho donato le mie sculture. Nel piano terreno ho sistemato i miei lavori, nel seminterrato ordinerò delle sculture che ho raccolto durante la mia vita; qui verrà aperto un centro culturale dove i giovani appassionati d'arte potranno incontrarsi, fare dibattiti, proiezioni, discutere. Io resterò quassù nell'ex canonica e continuerò a lavorare. Nato a Linguaglossa (Catania) nel dicembre del 1900, Messina a otto anni emigrò con la famiglia a Genova: «La città ci accolse, dice, con ìa sola ricchezza dei sogni che, giorno per giorno, si consumavano in un pianto a stomaco vuoto». Un'infanzia tristissima con le stagioni che si susseguivano nella miseria: la madre, siciliana di maestosa bellezza, costretta a lavare panni insanguinati presso l'ospedale e il padre ^(personaggio fantasioso, irrequieto, allucinato da sogni eroici»,/ spesso disoccupato, che se lo trascinava dietro sulla collina di San Martino d'Albaro per raccogliere la finocchiella che doveva servire per cena a tutta la famiglia. A Genova, dove ha vissuto oltre trent'anni. Messina cominciò a plasmare la creta e a tentare il marmo con lo scalpello sino a quando non lo invase la passione e cominciò a lavorare (garzone nella bottega di un marmista) e a frequentare le scuole serali. Poi le prime mostre, i primi successi, gli incontri con i personaggi dell'arte, le grandi gioie, le grandi amarezze della sua vita: «Poveri giorni» come li ha definiti nel libro edito recentemente da Rusconi. Un mazzo di ricordi che offrono un ritratto straordinariamente vivo e toccante di questo artista: dopo sessantanni di lavoro, e dopo avere ottenuto i massimi riconoscimenti (nel 1942 vinse il premio per la scultura alla Biennale di Venezia) scrive: «La critica avveduta ha ragione di giudicarmi un sorpassato. Ma io ringrazio Dio di tenermi lontano da ambizioni sbagliate. Non desidero altro che lavorare in pace. Il tempo giudicherà se ho sempre sbagliato». L'uomo non è remissivo, come potrebbero far pensare queste parole. Anzi è ben deciso a difendere la sua arte, e appena gli chiedo che cosa pensa delle nuove tendenze, mi guarda accigliato come se le avessi inventate io e sbotta: «Non penso niente, non ho tempo per pensarci». Ma è evidente che ci pensa; e continua: «Devo dire che c'è un eccessivo abbandono alla moda. Ho visto la mostra degli iperrealisti: roba da fare accapponare la pelle. Vede, ci sono troppi palloni gonfiati, gente che non conosce il mestiere; e non si può concepire un'opera d'arte senza la tecnica. Vogliono inventare a tutti i costi, ma l'arte non s'inventa, la si intuisce. Guai a chi fa solo dell'accademia, ma guai a chi non supera la moda dei propri tempi. Con il mestiere che ho, potrei inventare forme bellissime, ma non lo faccio. Subito dopo il periodo futurista, distrussi otto anni di lavoro. Di quel tempo c'è rimasta una sola testimonianza: "Gli amanti", che venne acquistata da De Pisis. Nient'altro. Io, pur restando nella tradizione, sono andato contro corrente, contro il conformismo delle mode. Come diceva Carlo Levi, ho guardato al passato per creare per il futuro». Per il futuro ha realizzato questo museo. Non è il solo: parecchi artisti viventi, in un modo o nell'altro, hanno allestito un loro museo personale (Vasarely ha addirittura acquistato un castello dove espone in permanenza le proprie opere). Queste «operazioni per i posteri» hanno sollevato molte critiche, in particolare da giovani che accusano i «maestri miliardari» di volersi autoimmortalare, mettersi in capo la corona di alloro. Chiedo a Messina: «Lei cosa ne pensa?». «Non sbagliano. L'ambizione è di conservare le proprie opere nel tempo. Se la mia non avrà il giudizio del tempo, vorrà dire che ho sbagliato tutto. Certo: alla base c'è la presunzione di restare, ma guai se l'artista non presumesse di avere fatto opere valide: sarebbe un fallito in partenza». Augusto Minucci

Persone citate: Brera, Carlo Levi, De Pisis, Francesco Messina, Vasarely