Vecchia Bologna del sindaco Dozza

Vecchia Bologna del sindaco Dozza Vecchia Bologna del sindaco Dozza Bologna. Marzo 1955: press'a poco vent'anni fa. In un'aula del vecchio tribunale bolognese, allogato in edifici di rimembranze napoleoniche, si svolge il primo processo per direttissima che coinvolge il nuovo direttore del Resto del Carlino e lo oppone al popolarissimo sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza, e ad un folto gruppo di amministratori comunali. Oggetto della contesa: le cooperative comuniste del capoluogo emiliano e in particolare la « Camst », quella dei cestini da viaggio dominante la stazione felsinea, con la sua fama gastronomica diffusa in tutta Italia, sottoposte ad una severa analisi critica da un vecchio e caro collega di quel giornale, soprattutto in tema di finanziamenti. Al primo articolo dell'inchiesta, erano piovute sul tavolo del neo-direttore ben undici querele, in testa il sindaco Dozza: querele per diffamazione, seguite da minacce pesanti, anche di risarcimenti finanziari assai elevati per le tradizioni di singolare e accorta parsimonia del quotidiano bolognese, ispirato alle regole amministrative della vecchia Italia, della « Italietta ». L'autore dell'inchiesta non aveva potuto esibire le pezze d'appoggio: talune autorità informatrici o suggeri trici si erano tirate in disparte al mo mento, non atteso o non previsto, della vertenza giudiziaria, altre avevano smentito i dati forniti, nell'ora del pericolo. La posizione del querelante era fortissima; il disagio del querelato non piccolo. Al primo dibattimento in corte d'assise, il neo-direttore si trovava, com'era giusto, dalla parte degli imputati, seduto su una di quelle panche che non distinguevano fra i sospetti di omicidio e i giornalisti perseguiti per reati di opinione o per difetto di informazione Dall'altra parte della sala sinistra ed angusta, il sindaco di Bologna, allora al massimo della sua popolarità e del suo prestigio; ma solo per pochi secondi, perché il primo movimento di Dozza fu quello di traversare la stanza e venirsi a sedere accanto all'imputato, per tutto il tempo in cui si sviluppò l'escussione dei testimoni e l'accertamento delle responsabilità. Il processo si concluse con una transazione, onorevole per entrambe le parti; ma il gesto di Dozza conferma un certo clima pacioso e bonario cui il sindaco comunista di Bologna non venne mai meno, neanche nei momenti più aspri della contrapposizione fra le forze democratiche tradizionali e il pei. La Bologna di Dozza rappresentò, in questo senso, un'isola inconfondibile anche nel clima della guerra fredda. L'episodio, che fu vissuto dall'autore di queste note, si inserisce negli ultimissimi mesi del governo ScelbaSaragat, di quell'estremo governo di solidarietà centrista che i comunisti amavano bollare sotto l'infamante insegna di « governo S.S. ». La polemica fra il quadripartito, sostenuto animosamente dal Carlino, e i comunisti era fortissima: a livello nazionale non meno che locale. I residui stalinisti operavano tenacemente nella guida politica del pei emiliano, nonostante la tecnica del sorriso in cui Dozza era maestro; il rapporto Kruscev era appena nell'aria. Eppure Dozza si muoveva secondo una sua logica personale e quasi unica, nel contatto coi partiti avversari, con le forze locali, con la stessa borghesia... Un anno e mezzo più tardi — maturata ormai la svolta krusceviana — Bologna doveva assistere ad un altro singolare scontro o confronto, quello fra Dozza e Dossetti. La Curia bolognese, retta dal cardinal Lercaro, si distingueva da anni, da molto prima del '55, in un anticomunismo viscerale, aggressivo, che entusiasmava la signora Luce e ispirava le copertine della rivista Life. I frati volanti erano stati inventati da Lercaro proprio per disturbare i comizi comunisti, per rendere impossibile lo svolgimento di manifestazioni frontiste, per rispondere all'aggressività avversaria « occhio per occhio, dente per dente ». Era l'esasperazione del clima pacelliano, era l'acme della linea della scomunica, poco fortunata dovunque, ma resistente e intransigente a Bologna. Dozza, per la verità, sembrava rispondere con l'ironia o col riserbo alle iniziative del palazzo arcivescovile; per gli scarsi contatti che ebbi col sindaco nei primi anni della mia lunga direzione al Carlino, dovrei concludere che non li sopravvalutò mai, convinto che nel fondo avesse visto o previsto giusto Guare- schi, con l'intesa finale fra don Camillo e Peppone. Ma la realtà della lotta comunisti-cattolici dominava in ogni momento la vita della città. Comunisti-cattolici, ho detto, prima ancora che comunistidemocristiani: essendo molto più complessa, e sinuosa, e variegata la linea della de locale, 0 meglio delle de locali. La situazione arrivava a tali punti di comicità che in molte manifestazioni pubbliche, se interveniva il sindaco, non interveniva il cardinale, oppure, se 1 due si incontravano casualmente, per gli errori o le smagliature del protocollo, evitavano di salutarsi o anche solo di accostarsi. Ricordo il dramma del grande rettore di quegli anni, il mio amico Felice Battaglia, che doveva adeguare alle severe regole di questa guerra fredda la stessa inaugurazione dell'anno accademico, cioè di una delle poche cerimonie veramente popolari e corali in una città che al suo ateneo riserbava la stessa reverenza degli anni carducciani e dove il titolo di « professore » prevaleva su qualunque altro (per cui il direttore del giornale cittadino era chiamato dagli uscieri «professore», come qualcosa che nobilitava la stessa professione giornalistica, un supremo sigillo di distinzione). Ebbene: la scelta di Dossetti partì dalla Curia, fu imposta dal cardinale ad una de recalcitrante, riservata o scettica, fu sentita dalla città — nonostante l'altissima tempra morale e intellettuale dell'uomo contrapposto a Dozza — come qualcosa di estraneo, un ritorno al clima o ai tempi delle Legazioni. Il Carlino sostenne Dossetti, non senza qualche difficoltà nella sua larga fascia di lettori anticlericali e pronti a preferire Dozza ad un « sindaco che digiuna »; ma è certo che Dozza condusse la campagna elettorale con estrema abilità, con un senso delle sfumature e perfino con un'indulgenza scettica che finivano per contrapporsi allo spirito di crociata del versante opposto, uno spirito di crociata che non poteva essere eliminato dalla sofferta obbedienza dell'ex leader della sinistra del Porcellino ormai vicino alle soglie del sacerdozio. Fu in quel maggio del '56 che Dozza allargò i suoi consensi al centro. Voti liberali e socialdemocratici, al confronto con le elezioni politiche, passarono, e in misura neppure trascurabile, alla lista delle due Torri. La critica concreta, e in molti punti non infondata, che Dossetti muoveva ad un certo sostanziale immobilismo della giunta socialcomunista non riuscì a spezzare la crosta di diffidenza e vorrei dire di avversione pregiudiziale, al cattolico intransigente e legato del Cardinale, che si opponeva dal fronte moderato, laico ed anche non laico. Il gruppo del Mulino era all'opera da qualche anno, con la sua carica di pluralismo culturale correttivo di un certo integralismo connesso ai cattolici di sinistra, col suo ponte fra laici e credenti sulla base di nuove dimensioni e impostazioni culturali capaci di colmare le fratture o le contrapposizioni di una volta; ma neanche la cultura bastò ad accorciare talune distanze quasi ataviche. Giuseppe Dozza, che non era andato oltre la seconda ginnasio, che apparteneva ad una poverissima famiglia socialista, intuì certi dati di fondo della sua città meglio di molti intellettuali, di partiti avversari o del suo stesso partito. E senza mai piegare a transazioni dot trinarle (era uno stalinista convinto, e tale rimase anche dopo la «destalinizzazione») corresse il rigore delle impostazioni politiche in una linea di umanità e di tolleranza, che gli attirò simpatie molteplici, che creò un autentico « mito », superato solo più tardi, e non senza fatica, dalla generazione nuova, di apparato, che avanzava, ricca di altre sottigliezze e consumata in altre astuzie. Ad un giornalista amico, che gli domandava una volta « come vorrebbe essere ricordato », Giuseppe Dozza, ormai nell'estremo autunno della sua vita, rispose: « Come quello che voleva mettere d'accordo comunisti e democristiani ». Il Sindaco « sbattezzato » dal cardinale Lercaro (ai tempi dell'Ungheria), il Sindaco contrastato dal pacelliano presule di Bologna negli anni più aspri e impietosi della lotta frontale, non abdicò mai alla direttrice fondamentale del suo amico Togliatti, del compagno di cordata di cui ricordava le sofferenze e le angosce patite a Mosca (per la parte di anni d'esilio trascorsi in Russia, l'altra parte avendola passata in Francia): la direttrice dell'intesa col mondo cattolico, della « grande alleanza » fra le forze popolari comuniste e quelle cattoliche. Aveva cominciato, Dozza, portando compunto un cero — sindaco neo-eletto, col consenso del governo militare alleato — alla grande processione di San Domenico nell'estate del '45; chiuderà la sua lunga stagione politica creando le premesse del conferimento della cittadinanza onoraria allo stesso presule-competitore di una volta ad opera del suo successore a palazzo d'Accursio, Guido Fanti. Furono i mesi, fra il '66 e il '67, in cui nacque la formula della « Repubblica conciliare », ancora legata alle vibrazioni o alle illusioni del Concilio; ma Dozza, poco prima di morire, avrebbe avuto tutto il diritto di rivendicare un titolo di autentica primogenitura in una formula successiva, e assai più perfezionata, di lotta politica. Quella, appunto, del « compromesso storico ». Giovanni Spadolini