LE MOSTRE d'ARTE

LE MOSTRE d'ARTE Omaggio a Vagnetti moderno ed antico La grafica di Viviani: poesia in vernacolo Qualche lettore sopra la cinquantina, frequentatore assiduo delle grandi mostre nazionali, ricorderà forse la partecipazione — con quindici dipinti — alla Quadriennale romana del 1943 di Gianni Vagnetti che, nato a Firenze nel 1897, era allora nel pieno della sua maturità artistica, si che Emilio Cacchi in quell'occasione gli dedicava un intero articolo sul » Corriere della Sera ». Che un critico di tanta autorità gli testimoniasse un simile interesse è la miglior prova del posto che Vagnetti teneva in quegli anni nella pittura italiana moderna prima che l'ondata dell'antiflgurativo. rifluendo tra le due sponde dell'Atlantico, facesse cambiar strada a tutti i Capogrossi della penisola (vedere la sua mostra ora aperta a Roma, dove il Capogrossi « figurativo » è tenuto in sordina, come lo sarebbe, tra cento altri, il Licini precedente le famose « Amalassunte » se al suo astrattismo degli Anni Trenta si opponessero certe figure modiglianesche degli Anni Venti, cui nessuno badava). Naturalmente ogni artista, in un dato momento della sua evoluzione, è padronissimo di rinnegare il suo » già fatto » per aprirsi tutto a un suo « da fare ». Però Vagnetti non fu di questo parere, e ci piace rilevarlo a proposito della bellissima retrospettiva (la prima a Torino dopo la sua morte nel 1956) ora dedicatagli dalla galleria "Narciso» di piazza Carlo Felice 18, mostra ch'è la conferma della coerenza morale, estetica, stilistica che regolò tutta la sua non lunga vita pittorica dopo il superamento di una fase « spadiniana », di cui v'è traccia nel più vecchio dei quadri esposti, il Nudo seduto. Forse l'alta considerazione dimostratagli dal Cecchi, ch'era fondamentalmente un classico e non un delibatore d'esperimenti avanguardistici, si comprende meglio rifacendosi a quanto il Vagnetti scrisse di sé per la sua partecipazione alla Quadriennale romana del 1935: « Nel '28 partii per Parigi sperando trovare nella moderna pittura di Montparnasse, allora tanto decantata, una parola di pace per II mio spirito smarrito in selve di dubbi e d'incertezze e fu quindi con vivo stupore che, dopo una rapida corsa In Rue de la Boétie e a Montparnasse, mi scopersi ad indugiare intere giornate al Louvre dove avevo ritrovato gente di casa, da Mantegna a Leonardo, con in più Velasquez, Goya, Corot ed alcuni impressionisti ». Quella, nella Parigi del postcubismo e di Picasso e di Breton, la sua scuola. E se ne tornò in Italia con « una chiara volontà di aderenza al reale senza, tuttavia, esserne asservito ». La realtà oggettiva, dunque, come modello di figurazione (la parola •modello» non offenda nessun giovinotto di belle speranze: non spaventò mai nessuno dei più grandi artisti di tutti i tempi): la realtà soggettiva come impegno di interpretazione artìstica. E si tenga conto d'una terza realtà: quella morale e persin fisiologica dell'uomo; che nel caso di Vagnetti era un uomo fragile, in lotta per lunghi anni con una salute cagionevole, portato a un intimismo di pensieri e sentimenti, spesso tormentato da dubbi e scontentezze del proprio lavoro. In una eccellente pagina che fa parte d'una monografia di prossima pubblicazione sul pittore, Luigi Cavallo parla nell'introduzione al catalogo di una ' solitudine cresciuta In un acuto senso di Impotenza ». Eppure la pittura di Vagnetti, nemmeno nel reiterato e a lui tan¬ to caro tema della donna oppressa da non si sa quale tristezza od inquietudine, non soggiace mai a una stanchezza spirituale, non si snerva mai nelle stanchezze del decadentismo, rifugge da ogni futile grazia decorativa. Benché basso di toni e volentieri un po' soffocato, il suo colore è sempre robusto, all'occorrenza d'impasto forte, ma delicato nelle inflessioni della luce sapientemente regolata in funzione delle forme. Ma la maggior suggestione di questa pittura, e forse il suo più alto raggiungimento stilistico, sta nella perfetta e spontanea dimensione affettiva del rapporto che corre tra il soggetto umano e l'ambiente, e che persiste anche quando al soggetto umano si sostituisce la natura morta: con un pathos, allora (e si veda la Natura morta con tovaglia a righe, quella, stupenda, Azzurra con pesce nero), che si potrebbe dire casoratiano. Ed è una dimensione che trova i suoi raffronti in Bonnard e, meglio, in Vuillard. Gianni Vagnetti, pittore di aperture moderne su sentimenti antichi, ha saputo darci una pittura che è antica e moderna al tempo stesso; e ben gli è dovuto questo omaggio torinese. * * In questi ultimi anni varie volte la grafica, ed anche la pittura, di Giuseppe Viviani sono state viste a Torino; tuttavia nel decennale della morte dell'artista la galleria « Viotti » (via Viotti 8) lo rievoca ora con una folta mostra d'oltre 120 disegni, acqueforti, litografie, e sul catalogo Renzo Guasco, dandogli posto (forse con una spinta un po' troppo forte) tra Morandi e Bartolinl, lo colloca nel novero dei maggiori incisori italiani moderni. Riguardo la tecnica e l'impegno stilistico, sempre sostenuto con ammirevole coerenza, nulla da eccepire; e giustamente Guasco avverte che il giudizio comune ha dato finora troppa importanza ai contenuti letterari di Viviani scindendoli dalla pura forma espressiva. Ma questi contenuti sono proprio ciò che nell'artista pisano caratterizza quella che si può chiamare la sua poesia in vernacolo: filtrata, è vero, attraverso una cultura umanistica ed espressa con un linguaggio di valore europeo, ma pur sempre » vernacola » anche nella vena umoristica, ironica, che talvolta sbocca nella » battuta » popolaresca o in una finta, lievemente abusata, ingenuità: i poveri omini che vendono cocomeri e gelati, i sassi e le marine impossibili, gli alabastri souvenirs della Piazza dei Miracoli, i soliti cani malinconici dagli occhi enormi e dolci, gli orinatoi che diventano architetture, davvero « monumenti » vespasiani, tutta una minutaglia dialettale di cose e persone ^tuoefatte, inerti. L'autentico contenuto, l'autentica poesia (tutta in sordina ma pienamente realizzata] di Viviani ci sembra stare In qualcosa di meno definito, di più impalpabile: nell'atmosfera di malinconia e di solitudine che avvolge le sue immagini. Una malinconia che non è l'alta tristezza, d'origine ro- | mantica, quasi da saga nordica, d'un Fontanesi, e nemmeno quella — metafisica, intellettualistica, esoterica — della celebre stampa di Diirer che porta questo titolo. Una solitudine che non ha la dimensione cosmica di quella leopardiana. La poeticità di Viviani resta « borghese », connotata dall'umiltà degli eventi, delle cose, dei personaggi rappresentati. mar. ber.

Luoghi citati: Firenze, Italia, Parigi, Roma, Torino