Fellini professione disoccupato di Lietta Tornabuoni

Fellini professione disoccupato LA CRISI SI FA SENTIRE SU CINEMA E REGISTI Fellini professione disoccupato Petri aspetta la fiducia in se stesso - Pasolini lamenta l'aumento dei costi, Rosi i difficili finanziamenti Roma, gennaio. Disoccupato, Fellini passa la giornata al telefono. Telefona col gettone da bar e ristoranti, telefona da casa propria o altrui, telefona dal suo ufficio quasi segreto. Risponde al telefono, fingendo benissimo d'essere la cameriera: con un vocino femmineo flautato, insicuro. Chiama al telefono, facendosi subito impaziente se il numero è occupato o se l'interlocutore va per le lunghe. Telefona ad americani, avvocati, produttori, banchieri, amici, giornalisti, attori. Telefona soprattutto ai suoi collaboratori: la rinuncia del produttore Rizzoli a realizzare Casanova ha lasciato provvisoriamente disoccupati pure loro. E' inquieto. Ha ripreso in mano la sceneggiatura di Mastorna, un progetto di qualche anno fa: « Se allora era profetico, ora sembra il telegiornale ». Ma: « Fuori dell'atmosfera del film, io non vivo ». Molti registi sono altrettanto nevrotici, ed è un guaio per loro. All'inizio del 1975 della crisi, tra i grandi e piccoli maestri del cinema italiano l'unico che stia girando un film è Bernardo Bertolucci. Gli altri discutono e progettano, riflettono e contattano, propongono e contrattano, forse la prossima settimana combinano. Telefonano a produttori che si fanno negare. Vanno a cena con i dottori della tv: in fondo il mezzo televisivo, l'immenso pubblico dei telespettatori... quando va bene, sceneggiano. Disoccupati milionari, almeno senza troppi problemi di soldi, vengono presi da frenesia (palestra, dieta, footing, basta con le sigarette, è giunto il momento d'impara- re l'inglese) oppure da ato- nia (e allora restano a letto tutto il giorno, con gran fastidio delle mogli). Qualcuno si compiace d'essere costretto ad avere con il lavoro « un rapporto meno alienante, più maturo ». Certi s'innamorano. « E' uno scollamento generale », dice Fellini, « un periodo di passaggio, un tempo d'interregno, un'ora di crepuscolo... ». La crisi, magari non drammatica come in altre indu- strie, grava sul cinema. Una casa cinematografica, la « Documento Film », ha chiuso; le società più fragili vacillano mentre si moltiplicano le « produzioni pirata » che approfittano della crisi per sottopagare i lavoratori. Nel 1974 sono stati girati, rispetto all'anno precedente, meno film: 50 in meno, secondo i produttori; 10 in meno, secondo i sindacati. Restano 240 i film italiani prodotti nel 1974, e insieme ai 312 film stranieri importati fanno 552 film: spesso brutti o addirittura infami, comunque troppi perché ciascuno possa avere una programmazione redditizia e il mercato non ne risulti ingorgato. La disoccupazione « in questo settore è endemica », dice il dirigente della federazione lavoratori dello spettacolo Morosetti. « Adesso, poi, per risparmiare vengono anche ridotti all'osso i tempi di lavorazione dei film ». Carissimi soldi Lo Stato deve all'industria cinematografica 20 miliardi, e non paga: i versamenti di quei contributi che Fanfani propone di negare ad alcuni film, sono in ritardo di ormai cinque anni. I costi di lavorazione sono divenuti altissimi, altissimo ' il costo del danaro rarefatto dalle restrizioni del credito. « Dopo un rovinoso disorientamento tra maggio e ottobre del 1974, la concessione d'un finanziamento di 6 miliardi da parte della Banca del Lavoro ha rimesso in movimento l'attività », dice Carmine Cianfarani, presidente dell'Associazione dei produttori. « Ma se il costo del danaro restasse ai livelli ! attuali, addio: chi può resi \ stere a tassi d'interesse del 20 per cento? Sarebbe il fai limento, per tutti ». A Fellini (irrequieto, il basco in testa e la sciarpa al collo nella fredda semioscu rità dell'ufficio, nel freddo odore di vecchie sigarette), quattro miliardi non sembrano troppi per un grosso film come Casanova: destinato al mercato internazionale, con un protagonista importante e costoso, con tanti personaggi e costumi, comparse e parrucche, con tanti ambienti da ricostruire tutti in studio. I produttori attribuiscono qualche responsabilità della crisi alla megalomania degli autori. I registi, dicono, intendono ormai come un « kolossal » anche la storia d'amore, il ritratto dell'artista da giovane o il tradimento del rivoluzionario d'origine borghese. Pretendono miliardi, si prendono tutti per Cecil B. De Mille... « Non certo io », rimbecca. « Io coltivo su me stesso l'illusione d'essere senza incertezze o megalomanie, maestro soltanto nell'arte italiana d'arrangiarsi ». Quello che non va è piuttosto, secondo lui, l'organizzazione del lavoro: « Un'impresa cinematografica dovrebbe forse essere considerata diversamente da un'industria metalmeccanica. Nel cinema, quello che costa di più è il tempo. Se si perde tempo, tutti i preventivi saltano: e quando giravamo Amarcord, ad esempio, se ne andarono quaranta giorni. Ponti, feste, sospensioni del lavoro, orari bloccati, impossibilità di chiedere straordinari... due giorni di riposo alla settimana io li trovo eccessivi, per una troupe: sproporzionati al tipo di fatica. Ma forse il mio è il punto di vista molto privato di uno poco competente, di uno che si identifica completamente col suo giocattolo, detesta ogni pausa e non sa stare senza lavorare ». Elio Petri non lavora da due anni: « Una crisi di credito: però mia, nei confronti di me stesso ». Per due anni ha fatto lunghissime passeggiate con il suo cocker Snoopy, ha partecipato a qualche manifestazione, è andato al mare a contemplare la barca che non sa pilotare. Brutto? « Non più ». Comincia adesso a scrivere la sceneggiatura di un film tratto da Todo Modo, l'ultimo libro di Leonardo Sciascia. Vorrebbe raccontarvi « tutto l'orrore della classe dirigente », vorrebbe Gian Maria Volontà per il personaggio del sacerdote don Gaetano. Vorrebbe anche realizzare per la televisione « la storia molto semplice dell'a¬ micizia tra un comunista e un trotskista esiliati al confino dal fascismo ». Vorrebbe « un modo nuovo di fare il cinema » che gli sembra irrimandabile, che la crisi rende indispensabile: « metodi più rapidi di lavorazione, per abbreviare il tempo che corre tra il nasere dell'idea e l'arrivo del film al pubblico; riforma dell'esercizio e della distribuzione; mutamenti nei rapporti di produzione, film realizzati in cooperativa, film senza divi... e far meno i divi anche noi registi... ». Nel gergo, i compensi per gli autori e gli attori si chiamano « costi sopra la linea », assorbono a volte il 70 per cento del bilancio d'un film e salgono impetuosamente: Volontè prende 120 milioni a film, Laura Antonelli ne vuole 140, Sordi 200; la coppia Terence Hill-Bud Spencer ottiene 7-800 milioni a film, Agostina Belli 80; certi registi sono quotati 80, 100, persino 200 milioni a film. « Sono costi insopportabili », dice Carmine Cianfarani. « Noi produttori abbiamo già stipulato un accordo per stabilire un calmiere ». I sindacati approvano: « Sui 70-80 miliardi investiti ogni anno nel cinema, il monte-salari di maestranze e tecnici incide per il 5 per cento. I costi artistici invece, i compensi versati "in bianco" o "in nero" ad attori e registi, sono pazzeschi ». I divi strapagati Ma è facile prevedere che il calmiere sui divi non funzionerà: « E' vero. Sono cifre assurde e anche il costo del regista, a un certo livello, è molto forte », riconosce Petri. « Se i produttori hanno pagato sinora somme simili, significa che lo ritenevano conveniente: industriali masochisti non ne esistono. Con chi se la prendono, adesso? Sono stati loro a creare o subire, comunque accettare, il meccanismo irrazionale da cui nascono questi eccessi. E continuano ad alimentarlo: tentando di garantirsi il successo concentrano in un film Manfredi. Gassman, Fabrizi. Sandrelli, Vitti, Cardinale... ». Anche nel cinema, insomma, « il sistema non funziona »? « In Italia non va bene niente: perché dovrebbero andar bene la Nazionale di calcio e il cinema? ». « Ma il cinema va bene! ». Nel salotto carico di bibelots barbarici e lignei souvenirs del folclore africano, la protesta di Pasolini (lenti nere, rigida compostezza) suona come un lamento. Non lavora da un anno. Dovrebbe cominciare in febbraio a girare le sue 120 giornate di Sodoma ispirate a Sade ma ambientate nel disfacimento, nella follia erotica, nell'estrema riduzione degli esseri ad oggetti, nella vendetta di stragi sanguinose degli ultimi giorni della repubblica di Salò: ville tristi, nazisti, grandi alberghi « e anche Marzabotto ». Quasi lamenta: « Il cinema va bene! », e ha quasi ragione: nonostante l'aumento di prezzo dei biglietti, spettatori e interesse non sono diminuiti. « E' la crisi generale che fa salire i costi generali: quelli del lavoro, dei trasporti, dell'energia elettrica, del telefono, delle forniture necessarie, soprattutto del danaro. Un film medio non costa ormai meno di 500800 milioni. E' la crisi generale a rovinare tutto e tutti... ». « Siamo tutti lacerati, divorati, frustrati, avviliti: ci vuole un grande sforzo di volontà per continuare ad essere combattivi ». dice Francesco Rosi. Il suo film La lunga notte del dollaro non si fa più, è stato accantonato. Per prepararlo aveva lavorato otto mesi con lo stesso entusiasmo che mette adesso nello scrivere, con Guerra e Jannuzzi, la sceneggiatura de II contesto, da un altro libro di Sciascia: protagonista, più che Lino Ventura, « la rete vischiosa del potere, l'esigenza di prudenza nel trattare con esso». E' fervido, stanco: «Fare un certo genere di film comporta ormai una fatica così grande per montare l'affare, che quando cominci sei logoro ». Lietta Tornabuoni

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