Israele: le incursioni "un rischio calcolato" di Giorgio Romano

Israele: le incursioni "un rischio calcolato" Israele: le incursioni "un rischio calcolato" (Nostro servizio particolare) Tel Aviv, 17 gennaio. Quattro volte nel corso della settimana l'esercito d'Israele ha compiuto operazioni nel territorio del Libano meridionale, in quella che si chiama la Fatahland. In tali operazioni sono stati colpiti i villaggi di Haman, di Shuba e di El Habariya, sono state fatte saltare numerose case, ponti e acquedotti, sono stati uccisi almeno cinque fedayn, altrettante persone sono state condotte in Israele per interrogatori e tre di esse sono già state rilasciate e ricondotte nel Libano. Nelle operazioni, nove soldati israeliani sono stati feriti e poi ci sono stati due volte tiri delle artiglierie libanesi nell'area di Metulla (la più settentrionale delle cittadine israeliane) e uno contro un'unità blindata a Buri El-Matalain, un'altura a due chilometri all'interno del Libano, occupata temporaneamente dagli israeliani per ragioni strategiche. La dura e metodica risposta alle ultime aggressioni dei terroristi è sembrata a molti sproporzionata agli attentati e contenente il rischio di provocare reazioni in un momento particolarmente delicato per tutto il settore. Tra le risposte date a queste obiezioni, anche di fonte israeliana, e alle voci diffuse nel Medio Oriente e in Europa, vai la pena di citare il brano di un articolo del ministro della Difesa Peres, apparso oggi nel supplemento settimanale del Davar. In esso è detto: «Le ultime operazioni nella Fatahland possono aver contribuito ad accelerare il processo di mobilitazione del Libano, ma hanno anche indotto Beirut a piendere delle misure per limitare la libertà d'azione ai terroristi. Sono loro, i terroristi, che spingono il Libano nelle braccia della Siria e non Israele». Secondo la tesi israeliana, le operazioni, che trovano qualche analogia con altre svolte in passato e con quelle compiute contro la Giordania nel 1970 (che hanno indotto Hussein a far piazza pulita delle organizzazioni palestinesi che agivano da padrone nel suo territorio) le operazioni attuali non fanno correre il rischio che per esse divampi un nuovo conflitto. Peres ha negato questa settimana che Israele abbia intenzione di attaccare il Libano e un tale attacco sembra ovviamente escluso per ragioni politiche. Tale ipotesi viene dunque esclusa, salvo che gli attentati assumano proporzioni senza precedenti. Il ministro della Difesa non ha fatto mistero di quello che è il calcolo israeliano: impedire la riunione di forze terroristiche di rilievo ai confini, ma non provocare, mediante operazioni troppo pesanti, una reazione politica che rischi di turbare il fragile equilibrio libanese, cosa che sarebbe a favore dei musulmani e quindi delle forze dell'estremismo anti-israeliano. La realtà è che gli israeliani credono di dover correre un rischio calcolato e che non ci sia il pericolo di una escalation. Essi pensano che Beirut, pur facendo tirare le sue artiglierie per onor di firma, preferisca in fondo che Israele continui a fare la polizia ai suoi confini piuttosto di doverla fare lui stesso. E' un rischio perché occorre che entrambe le parti riescano a conservare il controllo della situazione: il che non è così sicuro con la tensione che regna nell'area e gli interessi che sono in gioco. Giorgio Romano

Persone citate: Buri El-matalain, Haman, Peres