Lavorili! ricorda (come fosse ieri) la scomparsa da casa di Ermanno

Lavorili! ricorda (come fosse ieri) la scomparsa da casa di Ermanno L'udienza è bloccata da una telefonata: "C'è una bomba,, Lavorili! ricorda (come fosse ieri) la scomparsa da casa di Ermanno La deposizione dei genitori del ragazzo sospesa per la ricerca dell'ordigno - Dopo un'ora è ripreso il dibattimento - Interrogato dai giudici Andrea Benedetti, "Faccia d'angelo", non imputato perché al momento del delitto aveva 15 anni - Ascoltato come parte lesa per essere stato corrotto da Della Latta (Dal nostro inviato speciale) Pisa, 17 gennaio. «Pronto, Palazzo di Giustizia? Qui il gruppo due delle trame nere». «Che cosa desidera?». «Abbiamo già messo una bomba. Entro le due del pomeriggio il palazzo salterà in aria. Vi avvertiamo prima per evitare che ci siano vittime innocenti». Sono le nove e cinquanta. L'ottava udienza del processo per la morte di Ermanno Lavorini è cominciata da mezz'ora, l'aula, al primo piano dell'edificio, è affollatissima di pubblico, i banchi degli avvocati, quelli dei giornalisti sono gremiti. Il centralinista informa subito il cancelliere capo («La voce dell'anonimo aveva la cadenza veneta», preciserà), la notizia della minacciosa telefonata arriva in aula nel momento in cui il presidente sta interrogando il padre del bambino ucciso. L'ordine di sgombero, che ad onor del vero non suscita particolari apprensioni, è immediato. I carabinieri frugano il palazzo da cima a fondo, l'ispezione dura un'ora, ma della bomba non c'è traccia. Il solito scherzo alla moda, insomma, ma siccome la prudenza, con i tempi che corrono, non è mai troppa, alla ripresa del processo c'è un avvertimento del presidente: «Il pubblico sappia che sta qui a suo rischio e pericolo. Noi restiamo perché ci consideriamo in trincea». Chiusa la parentesi della telefonata anonima, si apre quella delle lettere altrettanto anonime. Ogni processo celebre e misterioso, si sa, scatena le fantasie, gli esibizionismi, la dilettantesca passione per la scoperta del bandolo inutilmente ricercato per tanto tempo. Nulla da meravigliarsi, dunque, se anche questo di Pisa non sfugge alla regola. Due le lettere recapitate stamane in aula: la prima spedita da Milano, la seconda da Castelnuovo Don Bosco in provincia di Asti. Quella milanese, indirizzata al legale della famiglia Lavorini, con bella calligrafia femminile, offre la soluzione del «giallo» così come l'ha rivelata lo stesso Ermanno Lavorini, evocato dall'anonima mittente durante una seduta spiritica: «Avvertite mia madre che si ricordi di chi, quel giorno, è venuto in lavanderia a ritirare i pantaloni: è lui che mi ha ucciso». L'altra lettera, vergata da una sgrammaticata mano maschile della provincia piemontese, esorta invece i giudici popolari della corte d'assise a condannare gli imputati «senza pietà e tentennamenti». Ed ora la cronaca dell'udienza. Comincia con la deposizione di Armando Lavorini, padre del povero Ermanno, la cui voce è a tratti rotta dall'emozione. Il suo racconto è limitato al ricordo di quel terribile pomeriggio del 31 gennaio 1969, quando il figliolo, studente di dodici anni, uscì di casa per una sgroppata in bicicletta. Alle diciassette e quaranta, la telefonata: «Ermanno resta con noi a cena. Prepari quindici milioni. Non avverta la polizia». Il seguito della storia è tutto nelle pagine del fascicolo processuale: Armando Lavorini, come la moglie Lucia che, dopo di lui si tratterrà davanti ai giudici per non più di cinque minuti, non ha altro da dire, il dolore che coltiva ancora oggi, a distanza di sei anni, non ha bisogno di essere- raccontato. E' il turno di Andrea Benedetti: entra in aula coperto dall'immunità che il codice penale concede ai minori di quattordici anni. Oggi, Andrea Benedetti ne ha diciannove, ma al tempo dei fatti aveva appena compiuto i tredici ed era chiamato «Faccia d'angelo» per i suoi lineamenti gentili. Accusato in istruttoria degli stessi gravi reati attribuiti a Marco Baldisseri, Rodolfo Della Latta e Pietro Vangioni, è stato estromesso dal procedimento perché non perseguibile. E' qui, adesso, ma soltanto in veste di parte lesa per avere subito, tanti anni fa, un innominabile atto di corruzione da parte di Rodolfo Della Latta. Conferma questo atto? Sì, conferma. Andrea Benedetti, però, muore dalla voglia di raccontare ai giudici che cosa è capitato a Ermanno Lavorini (una versione riveduta e corretta delle molteplici che ha reso al giudice istruttore), comincia a parlare, ma il presidente, rapidissimo, lo zittisce: «No. E' vietato dalla legge». Un'alzata di spalle e Andrea Benedetti, visibilmente deluso, si congeda. Ed ecco il maresciallo dei carabinieri Francesco Corbo. ieri insistentemente evocato dal fratello di «Faccia d'angelo», Luigi Benedetti. Questi, ricordiamo, offrì i propri servigi agli inquirenti per chiari- re la posizione di Andrea, coinvolto nel caso Lavorini. Fu proprio il maresciallo a fornirgli un registratore perché andasse dalla madre di Marco Baldisseri, la facesse parlare. E Luigi Benedetti andò, sbrigò l'incarico, riferì al sottufficiale Ieri, rischiando l'arresto in aula per falsa testimonianza, il fratello di «Faccia d'angelo» ha cercato di cambiare le carte in tavola dichiarando che non di Pietro Vangioni si trattava, ma del padre, Lorenzo («Ho firmato dei verbali senza neppure leggerli: mi fidavo dei carabinieri e del giudice istruttore»). Ammonito dpi presidente, si è aggrappato a un «salvagente»: «Quello che ho riferito è inciso nei na stri del registratore». I nastri, dunque. «Che cosa dicono?», chiede il presidente. «Niente di niente», risponde il maresciallo, spiegando che Luigi Benedetti non ha sapu- to far funzionare il registrato- re e che i nastri sono rimasti del tutto vergini. E allora, il nome di Pietro Vangioni, co- me è venuto fuori? «E' stato lo stesso Luigi Benedetti a farlo: davanti a me e, subito dopo, davanti al giudice istruttore». I Luigi Benedetti viene ri- i chiamato in aula. Ha il volto cereo, la gola secca, è teso co- me un arco. Il presidente lo I informa di come stanno le co se, l'avverte che i falsi testi moni vanno in prigione, gli chiede se conferma o no i suoi verbali. «Confermo tutto, ho firmato quei verbali, ho detto la verità», risponde di un sol fiato il giovanotto. «Bene — commenta il presi dente —, ora può andare via. s* prenda un caffè, ne ha bi sogno». Il processo continua domani, Filiberto Dani Pisa. Parlano i genitori di Ermanno: la madre Lucia e il padre Armando Lavorini (Telefoto Ansa)

Luoghi citati: Asti, Castelnuovo Don Bosco, Milano, Pisa