RITRATTI AMERICANI di Furio Colombo

RITRATTI AMERICANI RITRATTI AMERICANI Il giovane Bond In una gelida mattina di dicembre Julian Bond scende ad aprire la porta della sua cantina soffiandosi sulle dita. La cantina, alla periferia di Atlanta, Georgia, è il quartiere generale e l'ufficio. Di sopra abita la madre, che è venuta ad aprire in pantofole. « Ufficio del senatore », c'è scritto col pennarello su una targhetta adesiva. Julian Bond si prepara il caffè e si guarda intorno con la faccia di ragazzo appena svegliato. Sembra un diciottenne, anche per quei suoi gesti da giocatore di pallacanestro (il modo di allungarsi indietro, di sporgersi avanti per cercare le cose), ma ha appena compiuto trentaquattro anni. Sembra uno che vive solo e che sta bene da solo, col maglione, le scarpe da tennis, il senso di completa autonomia che gli si vede addosso. Ma di sopra, nella casa accanto alla madre, c'è una signora Bond con cinque bambini. Sembra un intellettuale, assorto, smarrito (apparentemente smarrito, con la dovuta civetteria). Ma è un leader politico di primo piano da almeno quindici anni. Sembra bianco, con l'eleganza trasandata alla Robert Redford. Ma è negro. * * Martin Luther King e Carmichael sono i primi nomi del suo curriculum. C'è alle sue spalle il Morehouse College di tutti gli intellettuali negri del Sud, come Abernathy, o Andrew Young o anche King. In un film avrebbe un ruolo sentimentale e nostalgico, da adolescente. C'è ben poca adolescenza nella dura esperienza dei negri, che infatti si dividono solo in bambini e uomini. Ma il carattere speciale di Bond, la qualità strana e magica che gli ha aperto nello stesso tempo i salotti liberals, le case editrici (è stato, e sem bra ancora, un « fanciullo prodigio », con i suoi libri di poesia pubblicati a diciotto anni) e le folle politiche, è questa impronta di adolescenza. Dell'adolescenza ha la libertà, il privilegio e l'impudenza. E' stato il primo negro nel Parlamento della Georgia dai tempi della guerra civile. Appena eletto ha condannato la guerra nel Vietnam. Ma era il 1965, la sua dichiarazione sem brò oltraggiosa ai legislatori bianchi del Sud. E Bond fu il primo parlamentare rifiutato dal suo Parlamento. Si rifecero le elezioni. Bond fu eletto con un margine ancora più grande. Il Parlamento della Georgia, di nuovo, decise di respingerlo. Terza elezione, terza vittoria, con la forza di un plebiscito. La Corte suprema rovescia ancora la decisione dello Stato della Georgia e Julian Bond entra nell'assemblea. Ma contro le aspettative di tutti è un parlamentare cauto, accorto, elegante anche nelle mosse politiche. E i suoi discorsi limpidi, di letterato già recensito in tutta l'America, sono una novità nella politica spiccia di uno Stato del Sud. Sembra nato per fare il ribelle, ne ha la faccia e il profilo. E invece si dedica molto al partito, che naturalmente è il partito democratico, un partito di massa e anche — come accade nel Sud — di razzisti. Ma Bond non intende fare strada da solo. Vuole una base. E non si lascia illudere dal suo privilegio apparente di ragazzo che arriva sempre per primo. Una base dura e compatta si muove dietro di lui, sempre più negri, ma non solo negri. Nella «Convention democratica» del 1968 si arriva a proporre la sua nomina a candidato vicepresidente. Non avrebbe avuto neppure l'età, e Bond si ritirò prontamente. Ma la sua identità nazionale ormai era creata. Adesso questo giovanotto in maglione che mescola col dito il caffè in una cantina che sarebbe il suo ufficio e parla della sua possibile partecipazione alle elezioni presidenziali del 1976 è il solo negro che compare nelle statistiche Gallup come un candidato accettabile. Ci sono pacchi di posta e lui la apre e la guarda di scorcio, mentre tiene il telefono fra la testa e la spalla, e assicura a voce bassa dentro il microfono: « No, no, sono io, questo è un ufficio con una sola persona. Dica a me, sono io ». Julian Bond è senatore dello Stato da appena un mese. Il suo lavoro, dice, è di rappresentare i poveri. I negri o anche i bianchi? « I negri sanno di essere poveri, non possono fingere perché ce l'hanno stampato in faccia. I bianchi disperatamente si illudono. E se possono vorrebbero non fare causa comune. Vorrebbero guardarsi allo specchio e dire a se stessi, alla moglie ai bambini: io almeno sono nato diverso. Ma non è vero. Il mio progetto è far capire ai bianchi poveri che sono poveri, e che questo li lega ai negri. Se hanno una carta da giocare, ce l'hanno insieme. Li divide la storia, la cultura, i pregiudizi, persino la religione. Ma li unisce la classe ». Impercettibile compare un sorriso nella malinconia adolescente del giovane Bond. Sa di avere detto la parola magica, « classe ». Una parola che non si usa nel vocabolario politico americano. « Sì, si, ho detto classe. E intendo classe in senso marxiano, naturalmente. Intendo la struttura sociale che separa, blocca, divide. Anche se, da americano, non sono marxista ». La poltrona girevole scricchiola e Bond la fa scricchiolare aspettando obiezioni. « Da intellettuale il marxismo mi serve. Per analizzare la società è uno strumento più acuto della pietà, più utile del solidarismo e più penetrante del populismo affettuoso. Come politico devo sapere che mi muovo in un mondo diverso, a confronto con una società post-capitalistica molto più complicata e infinitamente diversa da quella "pura" analizzata da Marx. E' come smontare una macchina meccanica e un calcolatore elettronico. Teoricamente lo schema può anche restare lo stesso. Ma io qui trovo un groviglio di fili non una leva, un ingranaggio o una ruota. Posso scomporre e ricomporre quei fili ma non posso strapparli. Se li strappo qualcuno muore. E di solito muoiono i poveri, anche se il bel gesto uno lo dedica a loro ». Bond sta pensando sul serio che avrà un ruolo importante nelle elezioni del 1976. E molti dicono che non si tratta solo della fantasia di un ragazzo troppo abituato al successo. « Che cosa farei io? ». E si capisce che Bond intende dire: « Se fossi presidente o vicepresidente ». « Prima devo spiegare a chi non è americano che cosa è progressive e che cosa è conservative, in questo Paese. La terminologia non sempre corrisponde con esat tezza. « Progressive è dare la precedenza a tutto ciò che migliora le condizioni della gente comune o povera. E' importante ricordare che da noi la linea di demarcazione passa abbastanza in alto (dodici-quattordicimila dollari all'anno). Al di sotto di questa linea stanno le masse che lavorano, tengono su il Paese, pagano le tasse e producono più per il resto del Paese che per se stessi. Per esempio in caso di crisi. Questa gente vuole un governo efficiente, esteso, pianificatore, con un vasto intervento in tutti gli aspetti della vita nazionale. Poiché appartengo a questo gruppo, io non esito a dire che il governo da noi non è immaginato come un mediatore fra lavoro e capitale. E' senz'altro dalla parte del lavoro, pur rispettando gli interessi di tutti. Ma il suo impegno è piegare l'alto reddito alla spesa sociale, cioè investire in massicce iniziative pubbliche. ★ * « Conservative vuol dire il contrario, naturalmente. Un governo centrale piccolo, che non si intrometta negli affari, e che lasci fare. Ma anche autorevole e capace di un controllo potente. Ma qui c'è una parola che si incrocia. E' la parola "forte". Nixon intendeva essere un presidente "forte". Anche Roosevelt lo era e io dico francamente che questo Paese ha bisogno di una presidenza, cioè di un governo "forte". Ma non certo di Nixon. Dov'è il malinteso? E' nel fatto che per noi (credo di poter dire la maggioranza dei democratici) governo "forte" vuol dire intervento in tutti gli aspetti della vita sociale. Per loro (credo la maggio ranza dei repubblicani) "forte" deve essere il controllo politico, debole l'interferenza economica. « Il rispetto degli affari do vrebbe coincidere con il rispetto di tutti. Ma proprio Nixon ha provato il contrario. E c'è un altro punto d'incrocio. Un conservatore non vuole occuparsi degli affari del mondo perché costano e non rendo no. O almeno quando costano ma non rendono. Un progres sista non vuole occuparsi de gli affari del mondo sia per rispetto dell'autonomia degli altri, sia perché pensa che i nostri problemi siano più urgenti. Che cioè quello che c'è, risorse, danaro, energie, investimenti, deve essere usato pri ma di tutto qui, dove la povertà non è affatto sconfitta Conclusione: non aspettatevi che un progressive americano di oggi abbia molto interesse per gli affari del mondo. Mo¬ ralmente, certo. Ma una calamita fortissima tira verso l'interno, il centro del Paese e i nostri problemi. E cosi, chi dice che un presidente democratico sarà più rispettoso delle altre culture e degli altri governi forse ha ragione. Ma chi si aspetta che vorrà proteggere, correggere, intervenire, difendere, probabilmente si illude. Noi staremo chiusi in casa per un bel pezzo ». La « casa » per ora è una sedia girevole al centro di una cantina. Sulla parete c'è una carta con scritto in grande: Città, Regione, Stato, Nazione, Mondo. Ognuna di queste parole è separata da una striscia colorata tracciata sul muro. Accanto a ogni parola ci sono appunti a matita, slogan, prese di posizione, annotazioni per un programma. La zona « mondo » è vuota. Furio Colombo

Luoghi citati: America, Atlanta, Georgia, Vietnam